06 aprile 2011

SUD OVEST USA pony express


Cavalcata in solitario in una delle parti più suggestive e fotogeniche del mondo, il sud ovest degli Stati Uniti percorrendo i deserti di California e Nevada per arrivare in una delle zone con la più alta concentrazione di parchi nazionali del mondo. 



ITINERARIO- Los Angeles, Bakersfield, Lake Isabella, Sequoia National Park, Kings Canyon National Park, Yosemite N.P., Mono Lake, June Lake loop, Monitor pass, Gold Country, Lake Tahoe,Carson City, highway 50, Fallon, Ghost Town di Ione, Austin, highway 376,  Tonopah, Warm Spring, Extraterrestrial highway, Rachel, Pioche, Sacramento Pass, Baker, Great Basin National Park, Hurricane, Zion N.P., Kanab, Fredonia, Jakob Lake, North Rim Grand Canyon, Jakob Lake,Marble Canyon, Page, Lake Powell, Pahraeh ghost town, Kanab, Bryce Canyon N.P., Kodacrome Basin State Park, Capitol Reef N.P., Hnaksville, Natural Bridges National Monument, Gooseneck State Park, Mexican Hut, Valley of the Gods, Monument Valley, Kayenta, Mexican Water, Bluff, Blanding, Monticello, Newspaper Rock State Historic Monument, Moab, Canyonlands N.P., Dead Horse State Park, Arches N.P.
LUNGHEZZA km  5370




“Are you muslim?” stento a credere alle mie orecchie. E’ il degno epilogo di oltre 1 ora e mezza fra controlli ed interrogatori all’aeroporto di Los Angeles.Tutto era cominciato con il primo funzionario, una simpatica donnina di circa 50 anni, che terrorizzata dall’indegno e spropositato numero di visti riportati sul mio passaporto, di cui alcuni alquanto compromettenti (Siria, Libia ed Egitto!), mi aveva scortato in quello che doveva essere una sorta di filtro tra il purgatorio dell’attesa, e l’agognata città degli angeli.“Are you jouking?” è la mia divertita risposta. Sorrido riappropriandomi del documento, osservando che sia sempre un passaporto italiano. Certamente l’11 settembre, e siamo appena a 2 settimane dall’attentato di New York, ha reso sicuramente più consapevole dei propri limiti un popolo che fino ad ora aveva ritenuto di poter essere considerato padrone del mondo. Il che si tramuta in domande alquanto idiote, sullo stampo dei questionari che vengono forniti al momento dell’ingresso sul suolo americano. E così il sogno continua. La odiata e amata Los Angeles a fare da base per questa ennesima abbuffata di km. I deserti californiani, le sierras, l’attraversamento del Nevada, per arrivare in quello che sono definiti, a ragione aggiungerei, un vero e proprio paradiso fotografico, il nirvana dello scatto: i parchi del Sud-Ovest. Tutti, ma proprio tutti, mi avevano magnificato di questa parte del nord America.“Perché?”Anche semplici viaggiatori europei incontrati un po’ dappertutto, durante il mio pellegrinaggio nord americano, erano stati concordi: “Because it’s so different!!”


“E che cazzo sarà mai?” Posso ritenermi un fortunato per aver potuto ammirare ed assistere a diversi spettacoli della natura, soprattutto negli ultimi anni, ma per rifarmi ad una famosissima pubblicità televisiva rivolta a chi stupidamente vive nella convinzione di aver visto già tutto o quasi, la sorpresa è dietro l’angolo, giusto per farti fare l’ennesima figura da stupidone.

Stavolta, vista la noia e la tristezza dell’esperienza precedente 8 mesi prima, la sosta nella città degli angeli è volutamente, risolutamente, decisamente ridotta all’essenziale: visite ad amici, parenti dei medesimi, una rapida manutenzione alla moto, stavolta sono riuscito a trovare un’officina che mi permettesse di lavorare in proprio sul mezzo e, praticamente dopo neanche una settimana, sono già per strada percorrendo la hwy 5, direzione Sacramento. Solo! Sembrerà strano, ma inizio ad apprezzare sempre più questi momenti nella più completa ed assoluta libertà decisionale. Poche cose: tu, la moto, ed un puzzle da costruire giorno per giorno nel rispetto di non rispettare programmi o restrizioni alcune. Nonostante siano i primi giorni di ottobre, la temperatura è estiva, ed allontanandosi dalla costa il clima desertico provoca un deciso rialzamento della temperatura. In compenso il tempo è bellissimo. A Bakersfield, decido di abbandonare l’highway, per avvicinarmi ai parchi nazionali sulla Sierras, seguendo strade secondarie. La strada 178 permette di arrivare al Sequoia N.P. attraversando anche il Sequoia national forest, costeggiando il lago Isabelle. Vantaggi? Numerosi.

La strada non è niente male, anzi in alcuni tratti è davvero entusiasmante, con buon asfalto, si evita l’autostrada, il traffico è praticamente inesistente, e si può cominciare a fare la conoscenza con questi giganti arborei che, sebbene leggermente più bassi del Redwood, anche se stiamo pur sempre parlando di un albero di quasi 100metri, possono arrivare all’invidiabile età di oltre 3000 anni. La mattina dopo mi concedo alla visita del primo di una lunga serie di parchi nazionali, che sono, è bene ricordarlo tutti a pagamento. Il Sequoia è il secondo parco degli Stati Uniti per anno d’istituzione (1890), preceduto solo dallo Yellowstone, ed insieme al Kings canyon forma, di fatto, un’unica entità. Per quanto riguarda l’adiacente Kings Canyon, considerate che con i suoi 8200 piedi, è il più profondo di tutti gli Stati Uniti, escluso l’Alaska, ma la caratteristica avvincente è che una strada, e che strada, in 31 miglia scende in picchiata verso il canyon e lo percorre fino a Lands End, dove il reverendo Kings, salmodiava su di un enorme blocco di granito posto lungo il Kings river. Anche qui si dovrà ritornare per la stessa strada, ma non credo che mai nessuno si sia lamentato! Il tempo continua ad essere assolutamente impeccabile nella sua luminosità solare, e la Sierra Nevada, la più estesa catena montuosa degli Stati Uniti continentali, permette di sfuggire alla calura delle pianure californiane. Una parola per definire la situazione: perfetta.

L’idilio continua anche allo Yosemite N.P., il più importante degli Stati Uniti, e riconosciuto dai più come il più bello ed affascinante degli Stati Uniti, non sono dello stesso parere, ma svilupperemo il discorso più avanti.  Numeri da capogiro: 4.100.000 di visitatori all’anno, secondo solo al Grand Canyon. La vista migliore si gode da Glacier Point, un balcone naturale posto a quasi 1000 metri, che si affaccia sulla valle del parco, dove sono concentrate la maggior parte delle strutture turistiche, per accedere alle quali è obbligatoria la prenotazione in qualsiasi periodo dell’anno.

L’unica strada che attraversa il parco da est ad ovest è la Tioga Road, un inferno nei periodi di massima affluenza, basti pensare che l’attuale gestione del parco sta considerando l’ipotesi di vietare l’accesso al 99% (!!!) dei veicoli, eliminando così uno dei principali problemi che affliggono Yosemite nel periodo estivo. Fatta ad ottobre, la cosa cambia, e di parecchio anche, salendo fino ai 3000 metri del Tioga Pass, dove è posto anche l’ingresso orientale, ed attraversando Tuolumne Meadows, la più ampia prateria subalpina della Sierra, un territorio con sterminate distese, fiumi dalle acque limpidissime e laghi cristallini di un azzurro che si confonde con il cielo. Una volta valicato il passo, in pochissime miglia la strada piomba sull’arida Owens Valley. Il contrasto è stridente: il Mono Lake è un lago di origine glaciale sulle cui sponde si trovano concrezioni di tufo molto particolari, simili a castelli di sabbia, che si formano quando, attraverso le sue acque salmastre, scaturiscono masse di acqua dolce ricche di calcio. Ma il pezzo forte della zona è il June Lake Loop, un circuito panoramico di una ventina di km, che segue la hwy 158 in direzione ovest lambendo i laghi Grant, Silver, Gull e June. Approfitto anche della splendida bellezza del June Lake per un pernotto nel campeggio sul lago, invitata da Terry, la ranger, prima a cena, e poi a usufruire della tenda militare di fianco al suo motor home. La sera, con gli immancabili hamburger, i discorsi spaziano liberi: Jess, il marito di Terry, ha girato mezzo mondo, prestando servizio nell’esercito. Mi confermano di essere stato abbastanza fortunato con il tempo: in altri anni, di questi tempi la neve ha già fatto le sue prime apparizioni, costringendoli a trasferirsi al sud, in Messico, ma mi dicono che paragonato al Nevada settentrionale la zona è un vero zuccherino.
“Il deserto del Nevada?” chiedo.
“Altro che deserto, vedrai, d’inverno si arriva anche a 40 sotto lo zero!”
Penso che mi stiano prendendo un po’ in giro, ho scavalcato passi di 3000 metri, viaggiato in Alaska e nello Yukon, cosa mai mi potrà fare un altipiano desertico? Comunque la notte, ed è la prima da quando ho lasciato Los Angeles, patisco sinceramente il freddo, nonostante le diverse birre ingurgitate, la temperatura scende sotto lo 0. La mattina presto, dopo un’abbondante colazione, il Loop è ancora più entusiasmante del giorno prima. Le luci sono stupende e ripercorro all’inverso il giro panoramico. La prossima tappa è la Gold Country, situata sulle pendici occidentali della Sierra. Ci sono 2 strade per ritornare verso l’Oceano, opto per il Monitor Pass, e la scelta si rivela felicissima. Un po’ meno la decisione di visitare questa zona, che si estende per quasi 300 miglia lungo la Hwy 49, disseminata di vecchie cittadine minerarie, completamente restaurate, perfettamente conservate, e assolutamente donate ad un turismo di massa tipicamente americano. Mi limito a visitare Volcano che la mia guida definisce come la cittadina mineraria meglio conservata dell’intera regione ed a percorrere il tratto da Jackson ad Auburn.  Circa un centinaio di km, ma più che sufficienti per il sottoscritto. Sicuramente le città dello Yukon, ma la stessa Skagway in Alaska, sono tutta un’altra cosa! Ma il peggio deve ancora venire: Lake Tahoe, magnificato per un’intera settimana da tutti quelli che avevo incontrato per strada, si rivela un’autentica delusione, affollato all’inverosimile. Un’autostrada lo avvolge quasi interamente, soffocandolo in un nastro d’asfalto, e che traffico! Tante macchine da far impallidire le ore di punta sulle terribili freeway di Los Angeles. Mi limito a percorrerne la metà occidentale e, come oltrepasso il confine col Nevada, prendo a dx per la 207 scendendo verso Carson City. La hyghway 50 mi attende. A Carson City, nonostante sia la capitale dello stato, mi concedo solo una sosta per del buon cibo messicano prima di rimettermi in viaggio su questa highway 50, definita “la strada più desolata d’America”.
“Sugli altipiani del Nevada ti sentirai veramente solo!”


Le parole di Terry, la ranger del June lake, mi tornano in mente non appena la sonnolenta cittadina scompare dagli specchietti retrovisori. La zona è sicuramente sufficiente a definire il concetto di “desolato”, ma la deviazione per la città fantasma di Ione, niente a che vedere con la Gold Country, può senza dubbio rafforzare il concetto nel viaggiatore solitario o semplicemente distratto. Il tempo si è messo al brutto, con qualche spruzzatina di gelida pioggia che mi accoglie all’arrivo nella ghost town. Poche case, quasi tutte in abbandono, distribuite sui 2 lati della strada, con un emporio bar irrimediabilmente chiuso. In lontananza vedo arrivare Fly, la mosca, età indefinita, barba lunga, capelli di più, cappello da cow boy, orecchino, che m’informa che a Iona sono rimasti in 11. Lui gestisce il bar, (meno male!) con orari da dopo lavoro ferroviario, apre alle 15.00 se gli va, e nei week end cerca di fare meglio, ma naturalmente senza esagerare.
“Per te faccio un’eccezione”
Ovviamente ci “eccezioniamo” una birra al bancone. Nell’orto tiene 13 bufali, 2 in più degli abitanti del villaggio, e mi informa che la città fu fondata nel 1895 grazie alla scoperta di giacimenti di mercurio, che spesso si abbinano, come anche in questo caso, a filoni d’oro. Agli inizi del 900 ci fu un primo esaurimento, che fu poi definitivo nel 1911. Qui rischio per la prima volta di rimanere senza benzina, e non perché non mi accorgo di pompe di benzina, ma semplicemente perché non ci sono. Ritorno sulla “sperduta” 50, che in passato faceva parte della Lincoln hwy, e procede lungo il percorso che seguiva l’Overland Stagecoach, il Pony Express e la prima linea telegrafica intercontinentale, che nel 1861, con la sua inaugurazione, dopo soli 19 mesi di attività, sancì la fine del servizio postale federale a cavallo. Non so se leggete fumetti, ma spesso Tex Willer menziona Austin, che spero non sia Austin nel Nevada. Comincio a credere che Jess e la moglie non stessero scherzando: un freddo della Madonna!!! Controllo la cartina e constato che alla faccia del deserto sono a quasi 2400 metri di altezza. Lo scenario è notevolmente cambiato: le montagne con i laghi e le foreste di sequoie sembrano appartenere ai labili ricordi di un altro viaggio, anche se sono trascorsi solo un paio di giorni, e mi sono spostato cardinalmente di appena qualche centinaio di km verso est. La deviazione sulla 376, direzione sud, non migliora molto la situazione. 110 miglia nel nulla assoluto fino all’intersezione con la hwy 6. Persino rispetto ad alcune zone dello Yukon, qui la situazione sembra addirittura peggiore. Dopo altri 80 km, arrivo all’intersezione con l’Extraterrestrial highway. Di solito nei punti più sperduti, soprattutto dove 2 strade si intersecano, è possibile trovare una stazione di servizio per rifornimenti vari. Questo anche in Alaska!! Qui qualcosa c’è, ma versa in uno stato di completo abbandono da disastro post atomico. Decido di arrivare a Rachel non avendo altre alternative, non ho viveri con me e ho una fame bestia; altri 100 km di completa, assoluta, inebriante solitudine. L’unico problema è che non riesco a regolarmi con gli orari. Rispetto al nord, fa notte molto prima, e sono costretto ad insultarmi per una buona mezz’ora, dato che il paesaggio è davvero straordinario, anche se i colori del tramonto, un giallo che tende all’arancione, compensano marginalmente i miei errori di calcolo. Alla fine giungo, popolazione 98, dice il cartello, ma credo barino, non siamo ai livelli di Ione ma poco ci manca. Il “Lille A-le Inn”, solito gioco di parole su presenze aliene, è l’unico bar disponibile. Chiedo per una cena e, nonostante abbiano camere, il permesso di piazzare la tenda. Pat la proprietaria mi risponde: “Dove vuoi, hai visto quanto spazio c’è fuori?”
Obbiettivamente! 10 minuti per sistemarmi affianco ad un UFO parcheggiato dietro la moto, e sono di nuovo dentro. Conosco 3 fratelli in vacanza da New York, di cui uno di essi, Sam, è letteralmente colpito dalle potenzialità, evidenti in noi europei, un po’ meno nei bykers americani, della mia Transalp. Mi invitano a sedermi con loro per cena, e trascorriamo la sera parlando di argomenti che sinceramente mi stupiscono. 
Conoscono Craxi, sanno che i Talebani non sono afgani, che Bush è un idiota e di quanto siano potenti Agnelli e Kissinger. Non solo, discutono ed analizzano con intelligenza e serenità sull’attentato alle torri gemelle, non approvando un’eventuale reazione del loro governo su popolazioni di fatto inermi e soprattutto innocenti. Stupefacente! Il locale comunque è una specie di museo che raccoglie tutte le testimonianze, anche fotografiche, di contatti ed avvistamenti con entità aliene. Certo, la zona si addice allo sviluppo ed alla diffusione di simili storie, una delle quali racconta della prigionia nell’Area 51, la base top secret dell’aeronautica degli U.S.A., di alcuni extraterrestri catturati. Ma la fantomatica Area 51, che occupa uno spazio aereo riservato di 7629 km quadrati, cui vanno aggiunti i 16000 del poligono nucleare, parliamo quindi di un’estensione pari a quella del Benelux, altro non è l’area che fu destinata nell’immediato dopo guerra agli esperimenti atomici. Si parla di circa 700 esplosioni nucleari in poco più di 10 anni!!!!  Altro che incontri ravvicinati del 3° tipo! Per anni la base è rimasta sconosciuta ai contribuenti, la sua stessa esistenza era negata dalle agenzie governative e dai settori dell’esercito che la dirigeva.
Persino l’origine del nome è segreta.
Ci sono 2 ipotesi:
1.     51 starebbe per 51° stato dell’Unione, fondato per scherzo dai burberi agenti dei servizi segreti, in uno dei loro rarissimi momenti di humour
2.     il 51 è l’inverso di Area 15, nome con cui è stato battezzato il Nevada Test Site, riservato agli esperimenti nucleari.
La mattina dopo aver salutato Sam, Shawn e Clay, mi spingo a sud, lambendo l’area dei test nucleari. Ho letto da qualche parte che Gertrude Stein, scusate ma non so neanche chi sia, ha osservato: “Negli Stati Uniti ci sono più spazi dove non c’è nessuno che spazi dove c’è qualcuno. Ed è questo che rende l’America ciò che è.” Qui in particolare, le strade salgono o scendono, la curva non è considerata. Questo tappeto d’asfalto, nero come l’inchiostro, che si srotola infinito alla vista. All’ennesimo dosso di 2500 metri, la curiosità mi spinge a dare una misura ai rettilinei. Al secondo tentativo (24 km!!!! non sto scherzando), decido che è meglio focalizzarsi su qualcosa di meno alienante. La cosa veramente incredibile non è tanto la distanza da un valico all’altro, ma il fatto che la puoi vedere tutta. E che solitudine! Aveva ragione Terry. Incrocio un paio di macchine ed un camion. Come dite? Distributori? Non ci siamo capiti. Siamo nel limbo della geografia terrestre. Devo convincermi che mi trovo negli Stati Uniti D’America, probabilmente dovrei farlo con molti dei suoi abitanti se si trovassero qui con me e non in qualche deserta strada della Libia dell’Autback australiano. A Pioche, faccio benzina e per scrupolo chiedo informazioni sul prossimo rifornimento. “Elye” mi viene prontamente risposto. Faccio notare che sono diretto al Great Basin: “A Baker c’è?”
“No, ma quando scendi dal Sacramento Pass, segui la highway 6, il rifornimento è lì, lo vedi nella valle, e poi vai verso Baker, che è ad un tiro di schioppo. Il tiro di schioppo: 11.2 km per il rifornimento, 12 km per il campeggio di Baker. Gli spazi mettono in difficoltà la percezione visiva delle distanze. E che freddo!


In compenso il Great Basin N.P. è un parco magnifico, pochissimo visitato, anche in Estate, che ospita il Wheeler Peak una splendida montagna di quasi 4000 metri che spacca in 2 i deserti dell’Arizona e dello Utha e ne segna il confine naturale. Il parco è così poco frequentato che l’accesso è gratuito ma non la visita alle Lehman Cave, grotte ricche di formazioni calcaree, scoperte nel 1885 e che rappresentano uno degli esempi di caverne più decorate dell’intera regione. E’ proprio al Great Basin che mi torna alla mente un libro di Chatwin che negli ultimi tempi della sua malattia soleva domandarsi: “Che ci faccio qui?”
Già, che ci faccio qui?
Freddo, freddo, un freddo notturno da togliere il respiro, da far perdere il sonno, raggomitolato nel sacco a pelo con indosso tutto quello che ho. 20° farenight, ovvero -10°! Certo la mattina, dopo poche ore, tutto è passato, come, anzi no, esattamente come al risveglio di un sonno agitato, ma queste notti, cominciano a sommarsi con troppa frequenza.
“Che ci faccio qui?”
Bah, intanto visitiamo le Lehman Cave, dove gli altri visitatori assistono ad uno strano, inverso, strip di un motociclista, assolutamente privo di alcuna sensualità, dato che la temperatura all’interno delle stesse è superiore a quella dell’esterno e di gran lunga anche. L’entrata nello Utha, coincide con l’inizio della zona sicuramente più suggestiva di tutto il paese. A parte però un leggero cambiamento di colore nella terra, passata ad un marrone bruno assai scuro, le caratteristiche del paesaggio non cambiano di molto. Deserto e questi nastri d’asfalto che lo spaccano in due. 
La solitudine continua, interrotta solo dall’incontro di 2 macchine ed un pick up di operai addetti alla manutenzione delle strade per circa 140 miglia, prima di incrociare e afferrare con le ruote la I 15 per le ultime 50 miglia scarse per arrivare ad Hurricane, ad appena mezz’ora dallo Zion. Qui mi aspetta il 1° ostello di questa terza spedizione. Un letto!!! Arrivo in questa cittadina mormone e sono veramente cotto, c’è una luce straordinaria, ma il pensiero di poter finalmente togliere i pantaloni di pelle, assumere sembianze più borghesi, e soprattutto pulite, mi lascia desistere dal cercare posti da fotografare al tramonto. Come al solito al giorno dopo, il sole è letteralmente scomparso dietro una fitta coltre di nuvole che rende il tutto piatto, pallido, bianco, senza forme, nonostante l’assoluta straordinarietà del parco. Continuare o prolungare la visita, sperando nel miracolo? Percorro le 2 strade dello Zion, immaginando quanti scatti e dove, potrei fare se ci fosse appena un po’ di luce, qualche timido raggio, niente di più. Niente da fare. Decido di attendere un giorno. Dormo come al solito nel campeggio all’interno del parco usando i soliti sotterfugi e, come già in altre occasioni, il miracolo più puntuale della Madonna di Fatima, si ripete. Sole, luce, un azzurro intenso ed una valanga di rulli che vengono bruciati in una mezza giornata entusiasmante. Ma via, North Rim del Grand Canyon, è lì ad attendermi. Avevo sempre pensato a che tipo di sensazioni avrei provato di fronte a questo mostro di 227 miglia, largo a volte 10 ed in media profondo 1. Freddo, all’entrata il ranger mi avverte che la temperatura prevista per la notte sarà un altro bel 20°. Ringrazio per la splendida notizia e rassegnato all’ennesima ibernazione notturna, mi dirigo verso Cape Royal, uno dei punti più spettacolari di tutto il parco, oltrepasso il visitor center, ma i miei pensieri sono rivolti a come affrontare la notte “calze di seta, pile…” imbocco la deviazione per l’overloock ”…potrei anche usare la membrana H2out, e col pile mi avvolgo le gambe…” oltrepasso Vista Encantada e… blocco la moto sbalordito. Incredibile!!! La strada corre letteralmente sull’orlo del nulla ed oltre c’è qualcosa che non credo sia possibile spiegare. La prima impressione? Mi stanno, e con me i 5 milioni di turisti che visitano il parco ogni anno, prendendo per il culo. È sicuramente finta. Ci deve essere uno schermo ed un proiettore che riflette immagini tridimensionali, come nei video giochi dell’ultima generazione. Stì americani!!


Il tramonto mi vedrà percorrere 2 volte la hwy 67 da Point Imperial a Cape Royal nel vano tentativo di riportare in foto quello che pesino l’occhio umano fatica ad accettare. Assisto congelato al tramonto, già diversi gradi sotto 0, ma la fortuna, sotto le apparenze di 2 simpatici ragazzi di Biella, mi permetterà di rinunciare all’ennesima ibernazione notturna, dividendo con loro, a prezzi per me ragionevoli, una stanza di un motel a Kanab. Grazie Franco e Riccardo. Il giorno dopo mi vede ancora per strada. Mi attende il lake Powell, l’ennesima meraviglia di questa parte degli states, anche se qui la natura poco c’entra. Il lago è artificiale, creato in circa 30 anni da un’immensa diga, ma lo spettacolo che ne risulta è davvero eccezionale. Il tramonto come al solito mi vede col solito sguardo ebete da uno dei punti panoramici della zona. Anni fa avevo visto, anzi no, ammirato una fantastica foto di uno strano budello colorato di suggestive tonalità di rosa. Dopo indagini avevo scoperto il nome: 
Antelope canyon, ma niente di più, top secret, nessuna informazione in merito. Finalmente dubbio svelato grazie a Susanne, guardia navayo che mi indirizza a poche miglia da Page. L’escursione è guidata ma lo spettacolo è incredibile. Ma i parchi nazionali si susseguono senza sosta in una sequenza inebriante di colori e panorami mozzafiato: Bryce Canyon, Kodakrome Basin State Park, Escalante State park, Capitol Reef National Park. Ma una menzione d’onore va sicuramente alla strada che mette in comunicazione tante meraviglie. La highway 12, a parte le possibilità di soste, è sicuramente uno dei percorsi più spettacolari dell’intero itinerario, viaggiando in alcuni tratti letteralmente sospesi in un vuoto panoramico che comprime lo stretto nastro d’asfalto. Ad Hanksville, faccio un paio di scatti a delle curiose sculture in ferro. La luce non è un gran che, decido quindi di perdere un po’ di tempo in libreria controllando la posta elettronica. Un tizio è appena uscito dall’ufficio postale e ne approfitto per chiedere l’informazione.
“eehhee?” è quasi un gemito di dolore più che una risposta, anzi sembra quasi offeso.
Io continuo ad osservarlo con la naturale innocenza di chi ha formulato una domanda a solo scopo informativo.  Sembra calmarsi: “ma hai visto Hanksville?” obiettivamente: il motel fotografato, chiuso fra l’altro, alcune case ed un gas station più avanti “e tu pensi” continua”che qui abbiamo tempo per leggere?”
Stavolta sono io ad osservarlo, deve essere una particolare forma di umorismo della zona! Abbozzo un sorriso, saluto. Cerchiamo almeno di non rimanere senza benzina. A Mexican Hut la sosta è obbligata, poiché sono tra la valle degli dei e la Monument Valley. C’è un trading post con campeggio gestito da Richard: “motel 30, camerata 20, campeggio 10”. Naturalmente, puntualmente e decisamente chiedo il solito sconto, accampando le solite scuse. Un macigno, più duro di un diamante. Si limita a sorridere sotto il suo cappellaccio da cow boy ed i suoi no, mentre continua a sorseggiare la sua coca, sono perentori. Niente da fare, non cede di un cent e tanto per cambiare, mi tocca accamparmi. La sera la cena è indecente: 18$ buttati, probabilmente una delle peggiori in assoluto. Ma la giornata successiva mi ripaga ampliamente, alla faccia di Richard e del suo trading post, anche se devo ringraziare il faccia di cazzo per avermi consigliato di prendere la Valley of Gods da ovest, gustandomi la parte migliore col sole alle spalle. Sicuramente la preferisco anche alla Monument Valley. Entrambe le strade sono sterrate, circa 15 miglia l’una, abbastanza facili tranne alcuni tratti di sabbia, poca roba non preoccupatevi.


Da non perdere anche il Goosenecks, un altro parco statale nelle immediate vicinanze, da cui è possibile ammirare un meraviglioso panorama del fiume San Juan, che scorre attorcinandosi su se stesso 340 metri più in basso. Altra menzione sulle strade: Moki Dugway, un tratto sterrato di circa 3 miglia che scende a valle, verso Mexican Hut, con tornanti strettissimi e coprendo un dislivello di 500metri. Ma la caccia ai parchi nazionali non è ancora finita. Moab, credo, offre 2 dei parchi più affascinanti meno sfruttati dell’intero Utah: Canyonlands, in assoluto il più bello, suggestivo e desolato e Arches.


I fantastici dintorni di questa minuscola cittadina di 6000 anime, sono utilizzati ancora oggi come set per numerosi film, ed è capitato anche al sottoscritto di imbattersi in una troupe cinematografica percorrendo la 313 verso “isle in the sky”, completamente ignorata a causa di quello che ritengo uno degli scenari più straordinari che mai mi sia capitato di ammirare.
E’ solo nel Sud Ovest che veramente si afferra il senso dell’immensità delle distanze negli Stati Uniti ed allo stesso tempo l’inesorabile potenza della Natura. In questi sconfinati spazi d’immense voragini, d’infinite distese, di grandiosi monumenti di pietra, dove scorrono fiumi impetuosi si capisce il senso di quel territorio unico, al limite tra la barbarie e la civiltà che è il Grande West americano e quel che ha comportato nella creazione dello spirito di una nazione così contraddittoria come gli Stati Uniti.