Cavalcata in solitario in una delle parti più suggestive e fotogeniche del mondo, il sud ovest degli Stati Uniti percorrendo i deserti di California e Nevada per arrivare in una delle zone con la più alta concentrazione di parchi nazionali del mondo.
ITINERARIO- Los Angeles,
Bakersfield, Lake Isabella, Sequoia National Park, Kings Canyon National Park,
Yosemite N.P., Mono Lake, June Lake loop, Monitor pass, Gold Country, Lake
Tahoe,Carson City, highway 50, Fallon, Ghost Town di Ione, Austin,
highway 376, Tonopah, Warm Spring,
Extraterrestrial highway, Rachel, Pioche, Sacramento Pass, Baker, Great Basin
National Park, Hurricane,
Zion N.P., Kanab, Fredonia, Jakob Lake, North Rim Grand Canyon, Jakob
Lake,Marble Canyon, Page, Lake Powell, Pahraeh ghost town, Kanab, Bryce Canyon
N.P., Kodacrome Basin State Park, Capitol Reef N.P., Hnaksville, Natural
Bridges National Monument, Gooseneck State Park, Mexican Hut, Valley of the
Gods, Monument Valley, Kayenta, Mexican Water, Bluff, Blanding, Monticello,
Newspaper Rock State Historic Monument, Moab, Canyonlands N.P., Dead Horse
State Park, Arches N.P.
LUNGHEZZA km 5370
“Are you muslim?” stento
a credere alle mie orecchie. E’ il degno epilogo di oltre 1 ora e mezza fra
controlli ed interrogatori all’aeroporto di Los Angeles.Tutto era cominciato con il primo funzionario, una simpatica donnina di
circa 50 anni, che terrorizzata dall’indegno e spropositato numero di visti
riportati sul mio passaporto, di cui alcuni alquanto compromettenti (Siria, Libia ed Egitto!), mi aveva
scortato in quello che doveva essere una sorta di filtro tra il purgatorio
dell’attesa, e l’agognata città degli angeli.“Are you jouking?” è la mia divertita risposta. Sorrido riappropriandomi del
documento, osservando che sia sempre un passaporto italiano. Certamente l’11
settembre, e siamo appena a 2 settimane dall’attentato di New York, ha reso
sicuramente più consapevole dei propri limiti un popolo che fino ad ora aveva
ritenuto di poter essere considerato padrone del mondo. Il che si tramuta in
domande alquanto idiote, sullo stampo dei questionari che vengono forniti al
momento dell’ingresso sul suolo americano. E così il sogno continua. La odiata
e amata Los Angeles a fare da base per questa ennesima abbuffata di km. I
deserti californiani, le sierras, l’attraversamento del Nevada, per arrivare in
quello che sono definiti, a ragione aggiungerei, un vero e proprio paradiso
fotografico, il nirvana dello scatto: i parchi del Sud-Ovest. Tutti, ma proprio
tutti, mi avevano magnificato di questa parte del nord America.“Perché?”Anche semplici
viaggiatori europei incontrati un po’ dappertutto, durante il mio
pellegrinaggio nord americano, erano stati concordi: “Because it’s so
different!!”
“E che cazzo sarà mai?” Posso ritenermi un fortunato per aver potuto
ammirare ed assistere a diversi spettacoli della natura, soprattutto negli
ultimi anni, ma per rifarmi ad una famosissima pubblicità televisiva rivolta a
chi stupidamente vive nella convinzione di aver visto già tutto o quasi, la
sorpresa è dietro l’angolo, giusto per farti fare l’ennesima figura da
stupidone.
Stavolta, vista la noia e la tristezza dell’esperienza precedente 8 mesi
prima, la sosta nella città degli angeli è volutamente, risolutamente,
decisamente ridotta all’essenziale: visite ad amici, parenti dei medesimi, una
rapida manutenzione alla moto, stavolta sono riuscito a trovare un’officina che
mi permettesse di lavorare in proprio sul mezzo e, praticamente dopo neanche
una settimana, sono già per strada percorrendo la hwy 5, direzione Sacramento. Solo!
Sembrerà strano, ma inizio ad apprezzare sempre più questi momenti nella più completa ed
assoluta libertà decisionale. Poche cose: tu, la moto, ed un puzzle da
costruire giorno per giorno nel rispetto di non rispettare programmi o
restrizioni alcune. Nonostante siano i primi giorni di ottobre, la temperatura
è estiva, ed allontanandosi dalla costa il clima desertico provoca un deciso
rialzamento della temperatura. In compenso il tempo è bellissimo. A
Bakersfield, decido di abbandonare l’highway, per avvicinarmi ai parchi
nazionali sulla Sierras, seguendo strade secondarie. La strada 178 permette di
arrivare al Sequoia N.P. attraversando anche il Sequoia national forest,
costeggiando il lago Isabelle. Vantaggi? Numerosi.
La strada non è niente male, anzi in alcuni tratti è davvero entusiasmante,
con buon asfalto, si evita l’autostrada, il traffico è praticamente
inesistente, e si può cominciare a fare la conoscenza con questi giganti
arborei che, sebbene leggermente più bassi del Redwood, anche se stiamo pur
sempre parlando di un albero di quasi 100metri, possono arrivare
all’invidiabile età di oltre 3000 anni. La mattina dopo mi concedo alla visita
del primo di una lunga serie di parchi nazionali, che sono, è bene ricordarlo
tutti a pagamento. Il Sequoia è il secondo parco degli Stati Uniti per anno
d’istituzione (1890), preceduto solo dallo Yellowstone, ed insieme al Kings
canyon forma, di fatto, un’unica entità. Per quanto riguarda l’adiacente Kings
Canyon, considerate che con i suoi 8200 piedi, è il più profondo di tutti gli
Stati Uniti, escluso l’Alaska, ma la caratteristica avvincente è che una
strada, e che strada, in 31 miglia scende in picchiata verso il canyon e lo
percorre fino a Lands End, dove il reverendo Kings, salmodiava su di un enorme
blocco di granito posto lungo il Kings river. Anche qui si dovrà ritornare per
la stessa strada, ma non credo che mai nessuno si sia lamentato! Il tempo
continua ad essere assolutamente impeccabile nella sua luminosità solare, e la
Sierra Nevada, la più estesa catena montuosa degli Stati Uniti continentali,
permette di sfuggire alla calura delle pianure californiane. Una parola per
definire la situazione: perfetta.
L’idilio continua anche allo Yosemite N.P., il più importante degli Stati
Uniti, e riconosciuto dai più come il più bello ed affascinante degli Stati
Uniti, non sono dello stesso parere, ma svilupperemo il discorso più avanti. Numeri da capogiro: 4.100.000 di visitatori
all’anno, secondo solo al Grand Canyon. La vista migliore si gode da Glacier
Point, un balcone naturale posto a quasi 1000 metri, che si affaccia sulla
valle del parco, dove sono concentrate la maggior parte delle strutture
turistiche, per accedere alle quali è obbligatoria la prenotazione in qualsiasi
periodo dell’anno.
L’unica strada che attraversa il parco da est ad ovest è la Tioga Road, un
inferno nei periodi di massima affluenza, basti pensare che l’attuale gestione
del parco sta considerando l’ipotesi di vietare l’accesso al 99% (!!!) dei
veicoli, eliminando così uno dei principali problemi che affliggono Yosemite
nel periodo estivo. Fatta ad ottobre, la cosa cambia, e di parecchio anche,
salendo fino ai 3000 metri del Tioga Pass, dove è posto anche l’ingresso
orientale, ed attraversando Tuolumne Meadows, la più ampia prateria subalpina
della Sierra, un territorio con sterminate distese, fiumi dalle acque
limpidissime e laghi cristallini di un azzurro che si confonde con il cielo. Una
volta valicato il passo, in pochissime miglia la strada piomba sull’arida Owens
Valley. Il contrasto è stridente: il Mono Lake è un lago di origine glaciale
sulle cui sponde si trovano concrezioni di tufo molto particolari, simili a
castelli di sabbia, che si formano quando, attraverso le sue acque salmastre,
scaturiscono masse di acqua dolce ricche di calcio. Ma il pezzo forte della
zona è il June Lake Loop, un circuito panoramico di una ventina di km, che
segue la hwy 158 in direzione ovest lambendo i laghi Grant, Silver, Gull e
June. Approfitto anche della splendida bellezza del June Lake per un pernotto
nel campeggio sul lago, invitata da Terry, la ranger, prima a cena, e poi a
usufruire della tenda militare di fianco al suo motor home. La sera, con gli
immancabili hamburger, i discorsi spaziano liberi: Jess, il marito di Terry, ha
girato mezzo mondo, prestando servizio nell’esercito. Mi confermano di essere
stato abbastanza fortunato con il tempo: in altri anni, di questi tempi la neve
ha già fatto le sue prime apparizioni, costringendoli a trasferirsi al sud, in
Messico, ma mi dicono che paragonato al Nevada settentrionale la zona è un vero
zuccherino.
“Altro che deserto,
vedrai, d’inverno si arriva anche a 40 sotto lo zero!”
Penso che mi stiano prendendo un po’ in giro, ho scavalcato passi di 3000
metri, viaggiato in Alaska e nello Yukon, cosa mai mi potrà fare un altipiano
desertico? Comunque la notte, ed è la prima da quando ho lasciato Los Angeles,
patisco sinceramente il freddo, nonostante le diverse birre ingurgitate, la
temperatura scende sotto lo 0. La mattina presto, dopo un’abbondante colazione,
il Loop è ancora più entusiasmante del giorno prima. Le luci sono stupende e
ripercorro all’inverso il giro panoramico. La prossima tappa è la Gold Country,
situata sulle pendici occidentali della Sierra. Ci sono 2 strade per ritornare
verso l’Oceano, opto per il Monitor Pass, e la scelta si rivela felicissima. Un
po’ meno la decisione di visitare questa zona, che si estende per quasi 300
miglia lungo la Hwy 49, disseminata di vecchie cittadine minerarie,
completamente restaurate, perfettamente conservate, e assolutamente donate ad
un turismo di massa tipicamente americano. Mi limito a visitare Volcano che la
mia guida definisce come la cittadina mineraria meglio conservata dell’intera
regione ed a percorrere il tratto da Jackson ad Auburn. Circa un centinaio di km, ma più che
sufficienti per il sottoscritto. Sicuramente le città dello Yukon, ma la stessa
Skagway in Alaska, sono tutta un’altra cosa! Ma il peggio deve ancora venire:
Lake Tahoe, magnificato per un’intera settimana da tutti quelli che avevo
incontrato per strada, si rivela un’autentica delusione, affollato
all’inverosimile. Un’autostrada lo avvolge quasi interamente, soffocandolo in
un nastro d’asfalto, e che traffico! Tante macchine da far impallidire le ore
di punta sulle terribili freeway di Los Angeles. Mi limito a percorrerne la
metà occidentale e, come oltrepasso il confine col Nevada, prendo a dx per la
207 scendendo verso Carson City. La hyghway 50 mi attende. A Carson City,
nonostante sia la capitale dello stato, mi concedo solo una sosta per del buon
cibo messicano prima di rimettermi in viaggio su questa highway 50, definita
“la strada più desolata d’America”.
Le parole di Terry, la ranger del June lake, mi tornano in mente non appena
la sonnolenta cittadina scompare dagli specchietti retrovisori. La zona è
sicuramente sufficiente a definire il concetto di “desolato”, ma la deviazione
per la città fantasma di Ione, niente a che vedere con la Gold Country, può
senza dubbio rafforzare il concetto nel viaggiatore solitario o semplicemente
distratto. Il tempo si è messo al brutto, con qualche spruzzatina di gelida
pioggia che mi accoglie all’arrivo nella ghost town. Poche case, quasi tutte in
abbandono, distribuite sui 2 lati della strada, con un emporio bar
irrimediabilmente chiuso. In lontananza vedo arrivare Fly, la mosca, età
indefinita, barba lunga, capelli di più, cappello da cow boy, orecchino, che
m’informa che a Iona sono rimasti in 11. Lui gestisce il bar, (meno male!) con
orari da dopo lavoro ferroviario, apre alle 15.00 se gli va, e nei week end
cerca di fare meglio, ma naturalmente senza esagerare.
Ovviamente ci “eccezioniamo” una birra al bancone. Nell’orto tiene 13
bufali, 2 in più degli abitanti del villaggio, e mi informa che la città fu
fondata nel 1895 grazie alla scoperta di giacimenti di mercurio, che spesso si
abbinano, come anche in questo caso, a filoni d’oro. Agli inizi del 900 ci fu
un primo esaurimento, che fu poi definitivo nel 1911. Qui rischio per la prima
volta di rimanere senza benzina, e non perché non mi accorgo di pompe di
benzina, ma semplicemente perché non ci sono. Ritorno sulla “sperduta” 50, che
in passato faceva parte della Lincoln hwy, e procede lungo il percorso che
seguiva l’Overland Stagecoach, il Pony Express e la prima linea telegrafica
intercontinentale, che nel 1861, con la sua inaugurazione, dopo soli 19 mesi di
attività, sancì la fine del servizio postale federale a cavallo. Non so se
leggete fumetti, ma spesso Tex Willer menziona Austin, che spero non sia Austin
nel Nevada. Comincio a credere che Jess e la moglie non stessero scherzando: un
freddo della Madonna!!! Controllo la cartina e constato che alla faccia del
deserto sono a quasi 2400 metri di altezza. Lo scenario è notevolmente
cambiato: le montagne con i laghi e le foreste di sequoie sembrano appartenere
ai labili ricordi di un altro viaggio, anche se sono trascorsi solo un paio di
giorni, e mi sono spostato cardinalmente di appena qualche centinaio di km
verso est. La deviazione sulla 376, direzione sud, non migliora molto la
situazione. 110 miglia nel nulla assoluto fino all’intersezione con la hwy 6. Persino
rispetto ad alcune zone dello Yukon, qui la situazione sembra addirittura
peggiore. Dopo altri 80 km, arrivo all’intersezione con l’Extraterrestrial
highway. Di solito nei punti più sperduti, soprattutto dove 2 strade si
intersecano, è possibile trovare una stazione di servizio per rifornimenti
vari. Questo anche in Alaska!! Qui qualcosa c’è, ma versa in uno stato di
completo abbandono da disastro post atomico. Decido di arrivare a Rachel non
avendo altre alternative, non ho viveri con me e ho una fame bestia; altri 100
km di completa, assoluta, inebriante solitudine. L’unico problema è che non
riesco a regolarmi con gli orari. Rispetto al nord, fa notte molto prima, e
sono costretto ad insultarmi per una buona mezz’ora, dato che il paesaggio è
davvero straordinario, anche se i colori del tramonto, un giallo che tende
all’arancione, compensano marginalmente i miei errori di calcolo. Alla fine
giungo, popolazione 98, dice il cartello, ma credo barino, non siamo ai livelli
di Ione ma poco ci manca. Il “Lille A-le Inn”, solito gioco di parole su
presenze aliene, è l’unico bar disponibile. Chiedo per una cena e, nonostante
abbiano camere, il permesso di piazzare la tenda. Pat la proprietaria mi
risponde: “Dove vuoi, hai visto quanto spazio c’è fuori?”
Obbiettivamente! 10 minuti per sistemarmi affianco ad un UFO parcheggiato
dietro la moto, e sono di nuovo dentro. Conosco 3 fratelli in vacanza da New
York, di cui uno di essi, Sam, è letteralmente colpito dalle potenzialità,
evidenti in noi europei, un po’ meno nei bykers americani, della mia Transalp. Mi
invitano a sedermi con loro per cena, e trascorriamo la sera parlando di
argomenti che sinceramente mi stupiscono.
Conoscono Craxi, sanno che i Talebani
non sono afgani, che Bush è un idiota e di quanto siano potenti Agnelli e
Kissinger. Non solo, discutono ed analizzano con intelligenza e serenità
sull’attentato alle torri gemelle, non approvando un’eventuale reazione del
loro governo su popolazioni di fatto inermi e soprattutto innocenti.
Stupefacente! Il locale comunque è una specie di museo che raccoglie tutte le
testimonianze, anche fotografiche, di contatti ed avvistamenti con entità
aliene. Certo, la zona si addice allo sviluppo ed alla diffusione di simili
storie, una delle quali racconta della prigionia nell’Area 51, la base top
secret dell’aeronautica degli U.S.A., di alcuni extraterrestri catturati. Ma la
fantomatica Area 51, che occupa uno spazio aereo riservato di 7629 km quadrati,
cui vanno aggiunti i 16000 del poligono nucleare, parliamo quindi di un’estensione
pari a quella del Benelux, altro non è l’area che fu destinata nell’immediato
dopo guerra agli esperimenti atomici. Si parla di circa 700 esplosioni nucleari
in poco più di 10 anni!!!! Altro che
incontri ravvicinati del 3° tipo! Per anni la base è rimasta sconosciuta ai
contribuenti, la sua stessa esistenza era negata dalle agenzie governative e
dai settori dell’esercito che la dirigeva.
Persino l’origine del
nome è segreta.
Ci sono 2 ipotesi:
1. 51 starebbe per 51° stato dell’Unione, fondato per
scherzo dai burberi agenti dei servizi segreti, in uno dei loro rarissimi
momenti di humour
2. il 51 è l’inverso di Area 15, nome con cui è stato
battezzato il Nevada Test Site, riservato agli esperimenti nucleari.
La mattina dopo aver salutato Sam, Shawn e Clay, mi spingo a sud, lambendo
l’area dei test nucleari. Ho letto da qualche parte che Gertrude Stein, scusate
ma non so neanche chi sia, ha osservato: “Negli Stati Uniti ci sono più spazi
dove non c’è nessuno che spazi dove c’è qualcuno. Ed è questo che rende l’America
ciò che è.” Qui in particolare, le strade salgono o scendono, la curva non è
considerata. Questo tappeto d’asfalto, nero come l’inchiostro, che si srotola
infinito alla vista. All’ennesimo dosso di 2500 metri, la curiosità mi spinge a
dare una misura ai rettilinei. Al secondo tentativo (24 km!!!! non sto
scherzando), decido che è meglio focalizzarsi su qualcosa di meno alienante. La
cosa veramente incredibile non è tanto la distanza da un valico all’altro, ma
il fatto che la puoi vedere tutta. E che solitudine! Aveva ragione Terry.
Incrocio un paio di macchine ed un camion. Come dite? Distributori? Non ci
siamo capiti. Siamo nel limbo della geografia terrestre. Devo convincermi che
mi trovo negli Stati Uniti D’America, probabilmente dovrei farlo con molti dei
suoi abitanti se si trovassero qui con me e non in qualche deserta strada della
Libia dell’Autback australiano. A Pioche, faccio benzina e per scrupolo chiedo
informazioni sul prossimo rifornimento. “Elye” mi viene prontamente risposto. Faccio
notare che sono diretto al Great Basin: “A Baker c’è?”
“No, ma quando scendi dal Sacramento Pass, segui la highway 6, il
rifornimento è lì, lo vedi nella valle, e poi vai verso Baker, che è ad un tiro
di schioppo. Il tiro di schioppo: 11.2 km per il rifornimento, 12 km per il
campeggio di Baker. Gli spazi mettono in difficoltà la percezione visiva delle
distanze. E che freddo!
In compenso il Great Basin N.P. è un parco magnifico,
pochissimo visitato, anche in Estate, che ospita il Wheeler Peak una splendida montagna
di quasi 4000 metri che spacca in 2 i deserti dell’Arizona e dello Utha e ne
segna il confine naturale. Il parco è così poco frequentato che l’accesso è
gratuito ma non la visita alle Lehman Cave, grotte ricche di formazioni
calcaree, scoperte nel 1885 e che rappresentano uno degli esempi di caverne più
decorate dell’intera regione. E’ proprio al Great Basin che mi torna alla mente
un libro di Chatwin che negli ultimi tempi della sua malattia soleva
domandarsi: “Che ci faccio qui?”
Già, che ci faccio qui?
Freddo, freddo, un freddo notturno da togliere il respiro, da far perdere
il sonno, raggomitolato nel sacco a pelo con indosso tutto quello che ho. 20° farenight,
ovvero -10°! Certo la mattina, dopo poche ore, tutto è passato, come, anzi no,
esattamente come al risveglio di un sonno agitato, ma queste notti, cominciano
a sommarsi con troppa frequenza.
“Che ci faccio qui?”
Bah, intanto visitiamo le Lehman Cave, dove gli altri visitatori assistono
ad uno strano, inverso, strip di un motociclista, assolutamente privo di alcuna
sensualità, dato che la temperatura all’interno delle stesse è superiore a
quella dell’esterno e di gran lunga anche. L’entrata nello Utha, coincide con
l’inizio della zona sicuramente più suggestiva di tutto il paese. A parte però
un leggero cambiamento di colore nella terra, passata ad un marrone bruno assai
scuro, le caratteristiche del paesaggio non cambiano di molto. Deserto e questi
nastri d’asfalto che lo spaccano in due.
La solitudine continua, interrotta
solo dall’incontro di 2 macchine ed un pick up di operai addetti alla
manutenzione delle strade per circa 140 miglia, prima di incrociare e afferrare
con le ruote la I 15 per le ultime 50 miglia scarse per arrivare ad Hurricane,
ad appena mezz’ora dallo Zion. Qui mi aspetta il 1° ostello di questa terza
spedizione. Un letto!!! Arrivo in questa cittadina mormone e sono veramente
cotto, c’è una luce straordinaria, ma il pensiero di poter finalmente togliere
i pantaloni di pelle, assumere sembianze più borghesi, e soprattutto pulite, mi
lascia desistere dal cercare posti da fotografare al tramonto. Come al solito
al giorno dopo, il sole è letteralmente scomparso dietro una fitta coltre di
nuvole che rende il tutto piatto, pallido, bianco, senza forme, nonostante
l’assoluta straordinarietà del parco. Continuare o prolungare la visita,
sperando nel miracolo? Percorro le 2 strade dello Zion, immaginando quanti
scatti e dove, potrei fare se ci fosse appena un po’ di luce, qualche timido
raggio, niente di più. Niente da fare. Decido di attendere un giorno. Dormo
come al solito nel campeggio all’interno del parco usando i soliti sotterfugi
e, come già in altre occasioni, il miracolo più puntuale della Madonna di
Fatima, si ripete. Sole, luce, un azzurro intenso ed una valanga di rulli che
vengono bruciati in una mezza giornata entusiasmante. Ma via, North Rim del
Grand Canyon, è lì ad attendermi. Avevo sempre pensato a che tipo di sensazioni
avrei provato di fronte a questo mostro di 227 miglia, largo a volte 10 ed in
media profondo 1. Freddo, all’entrata il ranger mi avverte che la temperatura
prevista per la notte sarà un altro bel 20°. Ringrazio per la splendida notizia
e rassegnato all’ennesima ibernazione notturna, mi dirigo verso Cape Royal, uno
dei punti più spettacolari di tutto il parco, oltrepasso il visitor center, ma
i miei pensieri sono rivolti a come affrontare la notte “calze di seta, pile…”
imbocco la deviazione per l’overloock ”…potrei anche usare la membrana H2out, e
col pile mi avvolgo le gambe…” oltrepasso Vista Encantada e… blocco la moto
sbalordito. Incredibile!!! La strada corre letteralmente sull’orlo del nulla ed
oltre c’è qualcosa che non credo sia possibile spiegare. La prima impressione?
Mi stanno, e con me i 5 milioni di turisti che visitano il parco ogni anno,
prendendo per il culo. È sicuramente finta. Ci deve essere uno schermo ed un
proiettore che riflette immagini tridimensionali, come nei video giochi
dell’ultima generazione. Stì americani!!
Il tramonto mi vedrà percorrere 2 volte la hwy 67 da Point Imperial a Cape
Royal nel vano tentativo di riportare in foto quello che pesino l’occhio umano
fatica ad accettare. Assisto congelato al tramonto, già diversi gradi sotto 0,
ma la fortuna, sotto le apparenze di 2 simpatici ragazzi di Biella, mi
permetterà di rinunciare all’ennesima ibernazione notturna, dividendo con loro,
a prezzi per me ragionevoli, una stanza di un motel a Kanab. Grazie Franco e
Riccardo. Il giorno dopo mi vede ancora per strada. Mi attende il lake Powell,
l’ennesima meraviglia di questa parte degli states, anche se qui la natura poco
c’entra. Il lago è artificiale, creato in circa 30 anni da un’immensa diga, ma
lo spettacolo che ne risulta è davvero eccezionale. Il tramonto come al solito
mi vede col solito sguardo ebete da uno dei punti panoramici della zona. Anni
fa avevo visto, anzi no, ammirato una fantastica foto di uno strano budello
colorato di suggestive tonalità di rosa. Dopo indagini avevo scoperto il nome:
Antelope canyon, ma niente di più, top secret, nessuna informazione in merito.
Finalmente dubbio svelato grazie a Susanne, guardia navayo che mi indirizza a
poche miglia da Page. L’escursione è guidata ma lo spettacolo è incredibile. Ma
i parchi nazionali si susseguono senza sosta in una sequenza inebriante di
colori e panorami mozzafiato: Bryce Canyon, Kodakrome Basin State Park,
Escalante State park, Capitol Reef National Park. Ma una menzione d’onore va
sicuramente alla strada che mette in comunicazione tante meraviglie. La highway
12, a parte le possibilità di soste, è sicuramente uno dei percorsi più
spettacolari dell’intero itinerario, viaggiando in alcuni tratti letteralmente
sospesi in un vuoto panoramico che comprime lo stretto nastro d’asfalto. Ad
Hanksville, faccio un paio di scatti a delle curiose sculture in ferro. La luce
non è un gran che, decido quindi di perdere un po’ di tempo in libreria
controllando la posta elettronica. Un tizio è appena uscito dall’ufficio
postale e ne approfitto per chiedere l’informazione.
“eehhee?” è quasi un
gemito di dolore più che una risposta, anzi sembra quasi offeso.
Io continuo ad osservarlo con la naturale innocenza di chi ha formulato una
domanda a solo scopo informativo. Sembra
calmarsi: “ma hai visto Hanksville?” obiettivamente: il motel fotografato,
chiuso fra l’altro, alcune case ed un gas station più avanti “e tu pensi”
continua”che qui abbiamo tempo per leggere?”
Stavolta sono io ad osservarlo, deve essere una particolare forma di
umorismo della zona! Abbozzo un sorriso, saluto. Cerchiamo almeno di non
rimanere senza benzina. A Mexican Hut la sosta è obbligata, poiché sono tra la
valle degli dei e la Monument Valley. C’è un trading post con campeggio gestito
da Richard: “motel 30, camerata 20, campeggio 10”. Naturalmente, puntualmente e
decisamente chiedo il solito sconto, accampando le solite scuse. Un macigno,
più duro di un diamante. Si limita a sorridere sotto il suo cappellaccio da cow
boy ed i suoi no, mentre continua a sorseggiare la sua coca, sono perentori.
Niente da fare, non cede di un cent e tanto per cambiare, mi tocca accamparmi.
La sera la cena è indecente: 18$ buttati, probabilmente una delle peggiori in
assoluto. Ma la giornata successiva mi ripaga ampliamente, alla faccia di
Richard e del suo trading post, anche se devo ringraziare il faccia di cazzo
per avermi consigliato di prendere la Valley of Gods da ovest, gustandomi la
parte migliore col sole alle spalle. Sicuramente la preferisco anche alla
Monument Valley. Entrambe le strade sono sterrate, circa 15 miglia l’una,
abbastanza facili tranne alcuni tratti di sabbia, poca roba non preoccupatevi.
Da non perdere anche il Goosenecks, un altro parco statale nelle immediate
vicinanze, da cui è possibile ammirare un meraviglioso panorama del fiume San
Juan, che scorre attorcinandosi su se stesso 340 metri più in basso. Altra
menzione sulle strade: Moki Dugway, un tratto sterrato di circa 3 miglia che
scende a valle, verso Mexican Hut, con tornanti strettissimi e coprendo un dislivello
di 500metri. Ma la caccia ai parchi nazionali non è ancora finita. Moab, credo,
offre 2 dei parchi più affascinanti meno sfruttati dell’intero Utah:
Canyonlands, in assoluto il più bello, suggestivo e desolato e Arches.
I
fantastici dintorni di questa minuscola cittadina di 6000 anime, sono
utilizzati ancora oggi come set per numerosi film, ed è capitato anche al
sottoscritto di imbattersi in una troupe cinematografica percorrendo la 313
verso “isle in the sky”, completamente ignorata a causa di quello che ritengo
uno degli scenari più straordinari che mai mi sia capitato di ammirare.
E’ solo nel Sud Ovest che veramente si afferra il senso dell’immensità
delle distanze negli Stati Uniti ed allo stesso tempo l’inesorabile potenza
della Natura. In questi sconfinati spazi d’immense voragini, d’infinite
distese, di grandiosi monumenti di pietra, dove scorrono fiumi impetuosi si
capisce il senso di quel territorio unico, al limite tra la barbarie e la
civiltà che è il Grande West americano e quel che ha comportato nella creazione
dello spirito di una nazione così contraddittoria come gli Stati Uniti.