Fianco a fianco, in sella al mezzo più aggregativo che esista, un sidecar, la moto non moto, cavalcando le colline della Sena Gallica. Uniti dal percorso, fianco a fianco, due dei più grandi cuochi italiani, Mauro Uliassi e Moreno Cedroni, tre stelle Michelin in due, raccontano la regione dove sono nati e che ha dato loro celebrità. In mezzo, la riviera del Conero, quattro zone vinicole e tante belle strade.
ITINERARIO- Senigallia, Ostra, Jesi, Osimo, Castelfidardo, Loreto, Numana, Badia di S. Pietro, S. Maria di Portonuovo, Ancona, Marzocca di Senigallia.
Testo di Francesco Beghi, foto di Giovanni Lamonica
Sia come sia, è ora di andare. Basta qualche centinaio di
metri e già il mio pilota si ammorbidisce. Sostiene che con la zavorra
rappresentata dal sottoscritto il sidecar è più guidabile. Certo 300 km di
autostrada non sono uno scherzo ma basta abituarsi alle sbandate di Giovanni e
al fatto di avere i mozzi delle ruote dei camion a un metro dalla faccia.
Ci siamo! Inizia l’itinerario vero e proprio. Senigallia ha
quell’aspetto un po’ così delle cittadine balneari adriatiche fuori stagione.
Pochi alberghi aperti, spiaggia deserta, lungomare battuto da un vento
freddino, qualche podista che si prepara per la prova costume. Visitiamo la
Rocca Roveresca, struttura difensiva modificata e ampliata nel corso dei secoli
fin dall’epoca Romana. Concettualmente il viaggio parte da Mauro Uliassi, a
Senigallia centro, considerato più tradizionalista, e si conclude da Moreno
Cedroni, a Marzocca, frazione orientale di Senigallia, esaltato come
innovatore, passando per l’interno, per tre importanti zone vinicole e per il
Parco del Conero. In realtà scopriamo che ci stiamo muovendo controcorrente,
perché sia io sia Giovanni, con le gambe sotto il tavolo, abbiamo avuto la
sensazione contraria. Ma tant’è. I due signori non sono semplici chef, sono
artisti e gli artisti è sempre difficile forzarli in un’etichetta che
inevitabilmente non può che andar loro stretta.
Da Uliassi, affacciato sulla spiaggia, l’ambiente è nautico,
legno bianco come su una barca dal lusso discreto. Il menu degustazione è un
crescendo di emozioni con alcune punte sublimi. Non vogliamo approfondire più
di tanto il discorso, dato che questa non è una rivista di gastronomia, ma
piatti come scampo zen, sandwich di triglia, pecorino e verza, spaghetti
affumicati con vongole e pendolini arrostiti sono dei veri prodigi di
equilibrio, delicatezza e intensità allo stesso tempo. Scegliamo eccellente
vino bianco marchigiano e troviamo ricarichi più che corretti per un ristorante
di questo livello. Andiamo a nanna allegri e contenti: come potrebbe essere
altrimenti?
Mattino, il tempo è incerto. La strada che da Senigallia
sale verso Ostra non dice granché ma perlomeno serve a Giovanni per imparare a
guidare il sidecar nelle curve in pendenza senza ribaltarsi. Siamo nella zona
di produzione della Lacrima di Morro d’Alba, vino rosso sapido e sincero. Ostra
è uno dei tipici centri medievali dell’entroterra di Ancona, circondato da una
cinta muraria costruita a metà del XIV secolo; notevole il palazzo comunale
settecentesco. In pieno centro, girando a passo d’uomo, ho un incontro
ravvicinato con una bimba riccioluta in passeggino: i nostri occhi sono alla
stessa altezza, la bimba sgrana i suoi che dicono “ma guarda questo signore in
che razza di carrozzina se ne va in giro alla sua età!”.
Ebbene sì: il sidecar aggrega. Suscita interesse in grandi e
piccini, la gente si ferma a guardare, fa domande e osservazioni. Ne abbiamo
ulteriore conferma a Jesi, capitale del Verdicchio, raggiunta dopo un bel
tratto di strada panoramica che passa per Belvedere Ostrense con lo sguardo che
spazia fin verso l’Appennino al confine col nord dell’Umbria. Bello l’impianto
medievale del centro cittadino, con arcate e molto vicoli ciechi che servivano
per disorientare i nemici in caso d’invasione. Qui, in un bel palazzo del ’400,
ha sede l’Enoteca regionale delle Marche; superfluo dire che la sosta per
qualche assaggio – senza esagerare – è d’obbligo. Intanto il popolo fa
capannello intorno al sidecar parcheggiato, qualche anziano ricorda i bei tempi
quando veicoli del genere servivano per trasportare tutta la famiglia cane
incluso e anche per scopi molto meno nobili quali quelli bellici.
Il side aggrega anche pilota e passeggero i quali, a
cinquanta all’ora sui saliscendi, possono parlare tranquillamente fra loro,
ammesso che abbiano qualcosa da dirsi. Giovanni sta prendendo sempre più la
mano sul mezzo. Riesce persino a fare un tornante in seconda. La strada
prosegue tra prati, boschi, filari di cipressi e vigneti. L’asfalto non è
granché, il carrozzino amplifica tutte le buche ma ormai ci abbiamo fatto il
callo. È ora di pranzo e guarda caso siamo nei pressi della Tenuta di
Tavignano, una delle aziende vinicole che l’Ufficio del Turismo ci ha segnalato
come tra le più belle da visitare e fotografare. Sconfiniamo quindi in
provincia di Macerata, un pezzetto di sterrato e troviamo ad accoglierci una
simpatica signora cilena che, venuta ad Ancona per studiare, ha preso marito e
si è stabilita in zona. Due o tre ottimi vini e un’abbondante razione di
ciauscolo, un salume tipico della zona, sono quel che ci vuole per riprendere
il cammino rigenerati. La cosa incredibile è che, se non ci sono troppi
sobbalzi, riesco persino a prendere appunti sulla mia Moleskine. Dal punto di
vista del passeggero, non c’è paragone tra lo stare comodamente sdraiati nel
carrozzino e l’aggrapparsi al pilota con il fondoschiena collocato su un
pezzettino di sella. Lungo la SP3 della Val Musone il tempo peggiora, in
compenso aumentano le fragranze agresti che inebriano l’aria. Poco traffico, tranquillo.
Ecco la pioggia. Mi sorge un atroce dubbio: questo arnese avrà uno scarico sul
fondo oppure mi ritroverò immerso in una specie di vasca da bagno ambulante? Colgo
l’occasione per provare la capote del sidecar. Fossi alto un metro e sessanta
non avrei problemi. Certo, niente vento, niente acqua in faccia – ora siamo
sotto un vero e proprio diluvio – ma devo starmene ingobbito e schiacciato con
la testa che, premendo contro la stoffa, ad ogni scossone fa saltare uno dei
bottoni automatici che tengono la capote assicurata alla scocca. Meno male che
non soffro di claustrofobia… Dopo qualche chilometro decido di liberarmi dal
giogo: meglio la pioggia!
Osimo ci accoglie con un acciottolato piuttosto sconnesso, non
proprio l’ideale per il sidecar che traballa sferragliando. Giriamo i vicoli
sfiorando i muri di mattoni a vista. È proprio una bella cittadina, allungata
su basse colline, circondata da imponenti bastioni. Con una particolarità, la
città sotterranea: vaste grotte scavate nell’arenaria sotto il centro storico disseminate
di bassorilievi, un tempo sotto il controllo dell’Ordine dei Templari.
Castelfidardo diede i natali alla fisarmonica nel 1863 per merito di Paolo
Soprani, prima che nel 1876 Mariano Dallapè di Stradella perfezionasse lo
strumento inventando la fisarmonica polifonica come la conosciamo oggi. Il
Museo della Fisarmonica merita una visita ma la città in sé promette più di
quanto mantenga: dopo Jesi e Osimo ci appare un po’ anonima, e non ce ne
vogliano gli abitanti, a partire da un simpatico vecchietto che ha voluto a
tutti i costi farsi fotografare accanto al sidecar.
Sopra Castelfidardo splendono gialli i prati di ginestre in
fiore e, visti i cartelli che indicano la strada per Recanati, il pensiero non
può non correre al Leopardi: “Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni
altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il
deserto consola”, reminiscenze liceali circa un tipo che era tosto nonostante l’iconografia
delicata e romantica, dato che questo canto postumo più che un’ode alle
ginestre è un attacco neanche tanto velato contro i potenti. Siamo ormai nel
cuore della terza zona vinicola attraversata, quella del Rosso Conero. Poche
curve ed eccoci a Loreto, dominata dall’imponente Santuario della Madonna
omonima. Altro vantaggio del sidecar: alla fine si riesce ad andare ovunque e
le forze dell’ordine chiudono sempre un occhio, tant’è che riusciamo a
parcheggiare proprio di fronte all’ingresso del Santuario, tra madonnari e
baracchini che smerciano paccottiglia religiosa. Gli spalti di Loreto sono una
finestra spettacolare sull’Adriatico, l’aria salmastra arriva fin qui e sembra
quasi di sentire lo sciabordio delle onde in lontananza.
A proposito di mare: è tempo di scendere sulla costa.
Sfioriamo Porto Recanati e percorriamo la litoranea fino a Numana, antico borgo
di pescatori cui si è aggiunta nel corso degli anni verso sud una lunga
propaggine fatta di stabilimenti balneari, bar, alberghi e ristoranti. Siamo
già nel Parco del Conero, infatti verso Sirolo la strada prende a salire decisa
in mezzo ai boschi regalando scorci spettacolari del mare che appare tra la
vegetazione. Abbiamo detto che con il sidecar si conquista la simpatia di
tutti, a partire dalle forze dell’ordine? Beh, c’è sempre l’eccezione che
conferma la regola: un amabile vigile, infatti, ci impedisce di scattare una
foto panoramica in una piccola piazza dove l’accesso è consentito alle auto ma
non alle moto, “neanche alle motocarrozzette” come ha tenuto a precisare. Dalla
parte di Portonovo la vista sul mare è ancora più affascinante e Giovanni non
risparmia la sua reflex digitale. Ormai siamo ad Ancona, che attraversiamo
adagio apprezzandone i saliscendi, i palazzi del centro e anche il vasto porto
dove sonnecchiano grossi traghetti pronti a salpare per la Dalmazia e la
Grecia. Ancora litoranea, Falconara Marittima, nota suo malgrado più che altro
per l’immensa raffineria, ed eccoci alla conclusione del cerchio, Marzocca di
Senigallia, il regno di Moreno Cedroni.
Un elemento accomuna i due ristoranti: dall’esterno si
notano appena. Niente clamori, niente chiasso, niente effetti speciali. Dal
legno bianco di Uliassi si passa al cristallo e al metallo di Cedroni. La
Madonnina del Pescatore è anch’esso sul lungomare ma dalla parte della strada
verso l’interno, al piano terra di un’anonima palazzina. Vetro tutt’intorno e
look minimalista all’interno. Il vulcanico Moreno non è ancora arrivato – proprio
oggi ha riaperto per la stagione estiva il Clandestino, un sushi bar a poca
distanza da qui – ma le brigate di cucina e di sala sono ben addestrate e noi,
affamati e curiosi come non mai, cominciamo le danze. Citiamo solo due piatti
memorabili: l’anguilla cruda marinata, elemento finale di una portata storica
multipla chiamata sushi & susci, e la spigola di amo arrostita con purea di
patate al tartufo nero, melanzane e salsa alla birra scura, il cui sapore
abbagliante è persistito felice in bocca fino al giorno dopo. Anche qui optiamo
per eccellenti vini bianchi delle Marche.
Giunti a questo punto, con Giovanni che ormai guida il
sidecar come se ci fosse nato sopra, i 300 km del ritorno a Parma sono solo una
banale passeggiata in autostrada.
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