Sud America: quattro mesi e mezzo, più di 30000km, almeno 10 passi oltre i 4000m, un mese e mezzo trascorso oltre i 3500m, incontri, cordialità, delusioni, sofferenze, miseria. Questo, in 2 righe, il sunto di una delle esperienze più affascinanti che un moto turista possa sognare. E questo, è lo sconclusionato diario, il risultato sgrammaticato del mio vagabondaggio.
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Penso queste cose mentre in compagnia di Lusiana, splendida esotica 24enne, Danielle, altrettanto straordinaria nella sua pelle mora e Maurizio, sicuramente il meno attraente del gruppo, sto assistendo dalle tribune più popolari, alla prima serata del carnevale nel Sanbodromo di Rio De Janeiro.
Eppure le cose non erano cominciate, come al solito dirà chi mi conosce, nel migliore dei modi, anzi stavolta avevo avuto l’assoluta, matematica, sconvolgente, purtroppo triste certezza: la causa di contrattempi, ritardi, complicazioni burocratiche, è il sottoscritto, l’unico, il solo responsabile di giorni e giorni di attesa.
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Illuso!!
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Valanghe d’acqua che a volte non ti danno il tempo neanche di indossare la tuta antipioggia. Ed è proprio in una situazione del genere che vengo ospitato da Cornelio, Alverto e Roul che vivono sulle colline appena fuori Apiai’, nella parte meridionale dello stato di San Paolo, con le loro famiglie, in favellas di campagna, umili, molto umili ma dignitose. Mi offrono caffè e cerchiamo di socializzare su basi linguistiche non propriamente simili. E chi dice che le lingue latine si assomigliano tutte!! Altra caratteristica è che il terreno come riceve un pò d’acqua diventa una specie di argilla scivolosa ed appiccicosa dalla quale e assai difficile districarsi. Morale: anche 20km di sterrato possono trasformarsi in un’impresa e costringerti a deviazioni di decine di km!! Anche se grazie ad una di queste, avrò l’opportunità di fermarmi nella sconosciuta Itapaeva, e rifocillarmi nella churrascaria “Querencia Gaucha”: asado spettacolare ed a volontà.
Il tempo non mi assiste, anzi. In compenso la cataratta di Iguazu, visitata 3 anni prima, ma solo dal versante argentino, nonostante il lato brasiliano offra una striminzita passerella di appena 1.2km riesce ancora una volta ad entusiasmarmi facendomi capire che popo’ di errore sia stato commesso, ignorandola nella visita precedente. Il ponticello, di misteriosa costruzione, va a finire direttamente nella Garganta del Diablo, la parte più suggestiva ed impressionante. Un’esperienza allucinante, maestosa e bagnata. Assolutamente da non perdere!!
Iguazu, in lingua guaranì, significa “grande acqua”, nome quanto mai appropriato, visto che più di 200 cascate si riuniscono su un fronte di 2.5km in mezzo ad un’esuberante vegetazione tropicale.
In compenso, il turismo e arrivato anche da questa parti. Quindi non più libero accesso alle passerelle, ma filtro del centro informazioni, da cui partono le navette per l’interno del parco.
Appena 3 anni fa era possibile entrare in moto ed accamparsi a 500m dalla Garganta: le zanzare erano a dir poco devastanti nella loro feroce aggressività vampiresca, ma in compenso ed in maniera assolutamente gratuita, la mattina presto si poteva essere i primi nella visita, prima dell’afflusso di massa.
Anche così, però, è un bel vedere, garantito!!
L’entrata in Argentina, apre un capitolo a cui tengo molto e che mi tocca direttamente.
La domanda ricorrente è quasi sempre la stessa: “Si sta bene in Italia?”
Come se il nostro paese fosse il barometro per controllare la temperatura di questa terra, cosi stramaledettamente piena di ricchezze, ma continuamente tradita da una serie impressionante di ladroni che si sono succeduti al governo con una frequenza ed un’assiduità talmente impressionante da stupire perfino il Sud America.
Corallito, strano nome, ma che qui sanno bene cosa significhi: il dicembre 2001, improvvisamente, dal giorno alla notte, il peso perde gran parte del suo valore (fino ad allora sopravvalutato da un cambio paritario col dollaro!!). L’economia argentina sotto il peso dei debiti contratti, subisce un durissimo colpo. Tutte le banche interrompono l’emissione di denaro e bloccano tutti i titoli in portafoglio.
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A distanza di 3 anni, i risultati sono visibilissimi: molte attività costrette alla chiusura, disoccupazione, un’inflazione superiore al 25%, anche se non si possono avere dati certi, grazie anche all’emissione di strane obbligazioni, assurdamente emesse dallo stato e dalle varie province, che sostituiscono la moneta corrente, ma che di fatto non hanno nessun valore, a volte anche da una regione all’altra.
Solito modo per risolvere, complicandole ancora di più, le cose. Un vero disastro, che mi lascia il cuore gonfio di tristezza e di preoccupazioni per un futuro che io personalmente vedo assai grigio, no peggio.
Le elezioni sono imminenti, ma non ci sono partiti distinti, solo una corrente, il peronismo, con più candidati, con a capo il redivivo Menem, una banda di chorros (letteralmente “ladroni”), pronti a spartirsi gli ultimi resti della torta.
E la gente? Passivamente, dopo aver perso molto, in alcuni casi moltissimo, sperano nel miracolo.
Soli in pochi casi ho visto rabbia e consapevolezza della gravità della situazione. Molti chiedono il pugno di ferro, ed in un solo caso, a Baires, un ragazzo di circa 25 anni, mi dice che l’unica speranza sta in un movimento di massa che sposti definitivamente gli equilibri, ma in un paese che sta vedendo letteralmente scomparire la classe media, e davvero un problema di non poco conto!!
Ripenso all’amico Francesco che nello stesso periodo sta viaggiando in moto per il Sud America, ripercorrendo il viaggio iniziatico di Ernesto Guevara, e penso che sarebbe il caso di trovarlo un nuovo Che!!
3 anni fa, in 17000km eravamo stati fermati solo un paio di volte e sempre per curiosità. I primi 2 giorni sono un incubo: 6-7 controlli con evidente interesse ad alleggerirmi di pesos, per giunta riuscendoci anche 2 volte, porca troia, aggiungerei!
Arrivo a Rosario e la Villa (si pronuncia viglia) e lì, propaggine urbanistica di un misero benvenuto.
E’ incredibile quanto si siano estese le baraccopoli in questi ultimi 3 anni. Al semaforo mi fermo.
3 ragazzi lavavetri sono lì. Uno, da lontano, mi chiede da dove vengo.
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Lui mi accende un meraviglioso sorriso di 4, forse 5 denti ed iniziamo a parlare mentre scatta il verde. Intanto e arrivato anche il terzo che comincia a lavarmi il cupolino. Gli spiego che è fatica sprecata, tempo 2 ore e sarà sporco come prima. Le luci del semaforo continuano a cambiare e le macchine defluiscono a dx e sx.
Calle Italia, comincia 4 quadre sulla dx per poi arrivare in centro dove mi attende Romina. Alla fine ed all’ennesimo verde riparto.
Percorro qualche incrocio, poi penso ma sì, volto a dx ed imbocco la Calle dal suo punto più misero per vederla lentamente cambiare in una metamorfosi sociale.
Le tappe di avvicinamento alle Ande sono comunque di una noia mortale: pampa, prateria, pianure qualsiasi nome vogliamo usare, il risultato e’ sempre lo stesso, km e km di asfalto srotolato su una terra che non offre freni visivi e tantomeno, spunti fotografici, che fino ad ora, devo riconoscere, non si sono ancora manifestati. Speriamo con le montagne!!
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Mi aiuta a capire più in fretta credo. A Cordoba, mi fermo per visitare l’amico di vecchia data Juan Carlos ed anche perché, i documenti dal Brasile, sì, ne mancavano ancora alcuni avete capito bene, tanto per cambiare tardano ad arrivare. Juan ha un’officina a 2 km dal centro, in una calle secondaria, rispetto alla principale che defluisce verso la Canada (Cagnada), il fulcro nevralgico di questa città di 1500.000 abitanti.
Anche qui gli effetti della crisi sono ben visibili, purtroppo.
In 2 giorni di vana attesa, avevo già notato lo strano movimento di un tale, poi identificato come Jorge, sul lato opposto della via, con uno sgabuzzino pieno zeppo di cianfrusaglie.
“un rigattiere, a cui nulla fa neanche la crisi di questo periodo!”
“un terribile venditore!”
L’ultimo pomeriggio, entra in officina e una volta saputo che sto per partire, lancia la sua incredibile, surreale offerta. Parte alla lontana: “se ti do un regalo (ormai siamo in confidenza!), tu me ne mandi uno dall”Italia?”
“che vorresti?”
“no, ascolta, io ti do un cabrito”
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Ripenso alla capretta legata al davanzale del balcone con un ciuffo d’insalata ed il cartello vendesi.
Cerco di farmi spiegare dove, eventualmente, dovrei sistemare il mammifero.
Piu tardi Juan mi spiegherà che ne ha 2 e che gli stanno costando troppo per il mantenimento!!
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La cosa appare subito chiara anche semplicemente osservando la moto, sulla quale oltre ai già ingombrantissimi bagagli, sono adagiate sul retro, con una classe da berlina di media categoria, 2 gomme di scorta, dato che una volta passato il confine sarà praticamente impossibile trovare coperture di questa misura.
Una moto di grandi dimensioni o un’utilitaria dagli spazi contenuti?
E’ un dubbio che assale anche i numerosi interlocutori che mi capita di incontrare per strada.
Il tempo continua ad essere pessimamente piovoso tanto da costringermi a chiedere informazioni alla stazione di polizia di Chilecito sulla transitabilità dei passi per il Cile.
La priorità va al Passo di Sico, ma con questo tempo mi sento di accettare qualsiasi opzione.
Le informazioni ricevute mi danno la sicurezza che i tutti e 3 i valichi che mi interessano sono transitabili, anche se come al solito il passo de Sico (quello che ritengo il più spettacolare), nella classifica stilata personalmente dalla policia militar argentina è all’ultimo posto a causa della scarsità di traffico e delle condizioni della strada. Arrivato a Salta, alla fine decido di tentare. San Antonio de los Cobres mi accoglie con una luce straordinaria ed un vento da abbattere un mulo come si suol dire in Patagonia.
Ed il giorno dopo? Ecco quello che ho scritto a caldo un paio di giorni dopo.
Passo Sico!!! Finalmente sono alla frontiera: 140km di fuoristrada di cui 90 pazzeschi, impegnato a rimanere in piedi, immerso in nuvole di polvere dello stesso spessore e consistenza del borotalco, con il contakm impegnato in un allucinante rallentatore, una moviola della distanza.
Cazzo, non ce la faccio!! Eppure fino al primo passo era filato tutto liscio, sterrato sì, ma fattibile. Una volta valicati i 4500 e dispari m dell’Alto Chorrillo, l’inferno. Una piana desertica e questo sabbione che non finisce mai. Peccato perché, il paesaggio e di una straordinaria, incomparabile, unica bellezza.
Si viaggia a più di 4000m, fra montagne colorate e lagune di sale immense!
Arrivo al controllo frontierizo e sono finito, un’ombra, una macchia nera nell’allucinante bagliore del riverbero solare.
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Chiedo della pista ed il gendarme: “mucho viento arriba!”
Infatti! Ripenso al giorno prima, quando facevo fatica persino a stare in piedi.
Fottuto!!
Decido di tentare fino al passo per vedere le condizioni della strada e del vento. L’uno e l’altro migliorano decisamente.
Sono stanchissimo, ma ora per lo meno si può proseguire. Arrivo al controllo fitosanitario Cileno dopo circa 40km.
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Lapidario: “purtroppo e’ la legge”
Morale, mi fa aprire solo i bauletti, operazione semplice, ma che richiede l’asportazione di tutte le borse e delle gomme.
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Il carabineros uscito per alzare la sbarra ha assistito a tutta la scena. A volte le parole non sono necessarie. Mi si avvicina, mi da una mano a rimontare il tutto aggiungendo alla fine: “che cazzo potrà mai portare uno che va in giro in moto!”
La polvere e dappertutto. Gli chiedo se ha dell’acqua per sciacquarmi. Entro nella guardiola, dove stanno mangiando.
“buon provecio”.
Come anche le giornate peggiori possono cambiare. Discutendo mentre mi versa acqua da una caraffa per lavarmi le mani, lo informo che e’ la terza volta che visito il Cile e che una delle cose che preferisco è il pescado.
Mi guarda: “quiere pescado?”
Non mi da neanche il tempo di rispondere che mi ritrovo seduto al tavolo apparecchiato con la rapidità di un cameriere estivo nei locali di Riccione: pescado con riso, insalata di cipolle piccante e macedonia. Mi dice che questo è il servizio di gendarmeria fronterizio cileno.
“manana vuelvo, que tiene en el menu?”
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Sono cotto, fatto. Mi fermo a Calama ed a un distributore, un cliente ed i 2ragazzi che ci lavorano mi dicono che a Ollague, punto di confine, troverò benzina (ricordatevi di questa per farvi 2 risate in seguito) e che tutto sommato la strada non e’ niente male. Riparto ed arrivo a Chui-Chui, una delle più belle oasi del deserto di Atacama, con la sua chiesa coloniale del 1611, la più antica del Cile.
Sono circa le 16.00. Pregunto e sì, meno male, c’e’ un hostal. Seguo la principale, non che ci sia molto altro in verità, arrivo, parcheggio, busso, entro, mi accoglie una signora dalla faccia simpatica che però mi dà la peggiore delle notizie.
E’ al completo perché, una compagnia cilena sta effettuando dei lavori all’interno, nel deserto ed i suoi operai sono alloggiati tutti lì. Ricevo la notizia come una bastonata.
“Comunque se vuoi c’è lì avanti la signora Francisca, che ospita i malati di mente da Calama”.
Non sono sicuro, la stanchezza è arrivata fino ai padiglioni auricolari ma credo di aver ascoltato “locura”.
Tra la tenda ed un letto....Altro bussare, altra porta, altre speranze e si affaccia Manuela, probabilmente la figlia: capelli neri, occhi ancor più scuri che ti spaccano in 2 e che tradiscono le sue origini indie. Le spiego la situazione.
Lei mi conferma che per alloggiare c’è bisogno di un’autorizzazione da Calama, ma trasudo stanchezza dalle ossa, dai muscoli, dallo sguardo. Mi osserva con i suoi 2 laser al massimo della potenza e finalmente una buona notizia: le abitazioni sono molto umili ma se mi accontento fa un’eccezione. In 3 minuti sistemano un letto che collaudo immediatamente perdendo l’occasione di fotografare la chiesa!! La sera di Chiu Chiu nel ristorante gestito da un’affabile, rubiconda gentile signora (che alla fine mi regalerà anche del mais tostato per il viaggio), uno dei figli mi informa che posso affrancarmi una 40ina di km di sterrato percorrendo una strada mineraria asfaltata e poi congiungermi più a nord sulla principale per la Bolivia.
Detto fatto, arrivo al temine ed il ponte che dovrebbe unire le 2 sponde del fiume e sbarrato perché, pericolante. Gli operai del cantiere mi confermano che non si può passare, ma 15 minuti più avanti si può guadare il fiume (!!!) Anche loro sono piuttosto scettici, l’acqua è piuttosto alta anche se il punto d’attraversamento non è molto largo.“comunque veniamo con te ed al limite carichiamo la moto sul pick up”
Partiamo e lungo il tragitto si aggiunge alla strana, improvvisata carovana, anche il capo del cantiere, che ci segue con la sua Vitara.
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“Io peso 80kg”
“io 75 e tu?”
“io 80, e la moto?”
Sì, ci siamo.
Alla fine abbracci e baci. Via verso la Bolivia.
Arrivo a Ollague, classico posto di
frontiera, e ho subito la netta sensazione che
c'è qualcosa che non và. Domando subito della benzina. Al contrario delle informazioni ricevute a Calama, non c'e stazione di servizio, anzi qui è sempre stato un problema. Municipalidad nada, carabineros del cile nada, anzi dopo 3 visite in Cile trovo il primo militare arrogante, borioso ed anche piuttosto maleducato, che senza mezzi termini mi dice che il problema è mio, solo mio e che a lui di fatto, non gliene frega un cazzo.
c'è qualcosa che non và. Domando subito della benzina. Al contrario delle informazioni ricevute a Calama, non c'e stazione di servizio, anzi qui è sempre stato un problema. Municipalidad nada, carabineros del cile nada, anzi dopo 3 visite in Cile trovo il primo militare arrogante, borioso ed anche piuttosto maleducato, che senza mezzi termini mi dice che il problema è mio, solo mio e che a lui di fatto, non gliene frega un cazzo.
Sono allibito e, la cosa non sarebbe
tanto grave se non mi sentissi anche fottuto a 208km da Uyuni e 185 da Calama
con non più di 80-90km di autonomia.
Traffico fino a quel momento 0.
Comincio a chiedere per strada ed
alla fine mi indirizzano alla stazione del ferrocarril, dove trovo Federico,
tuttofare ferroviario di Olliague, destinato per 2 anni in questo sperduto
angole del Cile.
Gli spiego la
situazione, riflette un attimo poi ci dirigiamo verso uno sgabuzzino, dove
appare un miracoloso, fantastico, opportuno bidone rosso con la scritta: SUPER
97 oct.
C’è da travasarla!
Bottiglia, tubo, ed al primo
tentativo, Federico s’ingurgita un buon mezzo bicchiere di buona, stagionata
gasolina. Scarico la bottiglia nel serbatoio, riapriamo il tubo e....niente, il
flusso si è interrotto!! Bisogna aspirare ancora. Mi guarda come per dire ora
tocca a te.
Per solidarietà anche il
sottoscritto si spara una buona dose di combustibile.
“tomo de todo pero la cerveja esta meyior!!” gli dico.
Scoppiamo a ridere e continuiamo per
una decina di litri.
E’ in servizio (ben un treno al
giorno!!!) e di alcolici non se ne parla!! Bottiglione da 2 litri di coca cola,
nel vano tentativo di cancellare i pestiferi effluvi che mi accompagneranno nei
prossimi giorni, provocando il più mero sconforto nei miei interlocutori.
“quanto ti devo?”
“nada, que te vaya bien el viaye, y suerte”.
Al confine boliviano il simpatico
doganiere m’informa che un bus è partito da appena mezz’ora, e che
raggiungendolo ho buone possibilità di arrivare ad Uyuni. Non capisco, ma dopo qualche km,
tutto è incredibilmente chiaro!
La strada, che dovrebbe
essere una statale, si eclissa, scomparendo. Niente, una traccia, o meglio più
tracce, senza nessun riferimento, segnale o indicazione. Niente. Solo qualche
jeep a cui chiedere informazioni ed il solito pullman che raggiungo ma che
perdo sistematicamente fermandomi a scattare foto, tanto da ritrovarmelo dietro
dopo un paio d’ore. Speranza, speranza di non perdersi, per poi arrivare, dopo
200km e rimanere a bocca aperta. Il mio rapporto con il
salar di Uyuni, era iniziato qualche anno fa con uno shock visivo, protrattosi
poi per giorni, avvenuto su una rivista fotografica. Mi ricordo che era stato
amore a prima vista “un giorno ci andrò, forse in moto”, rendendomi benissimo
conto delle difficoltà. Logico che nel momento in cui vi arrivo, la mia
reazione è quella di un bambino al quale hanno fatto un regalo insperato ma
desiderato per lungo tempo. Percorro qualche km su di un terrapieno e poi la
strada scende nella piana, il pomeriggio sta spingendo il sole verso
l’orizzonte. Luci, incredibili! La vista spazia nel niente infinito, mai più
pieno di significati: il bianco del sale, l’azzurro del cielo e l’ombra della
moto. Mi sento un uomo, solo, fortunato e stupidamente felice. Mi trovo a quasi
3.700m d’altitudine, nella distesa piatta più estesa del mondo con i suoi
12.106 km quadrati. Secondo le recenti teorie geologiche, questa parte
dell’altipiano era un tempo completamente sommerso dall’acqua. Trascorrerò 3
giorni, in quello che, considero uno dei posti realmente più incredibili, spettacolari,
suggestivi, fantastici che mai mi sia capitato di visitare.
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Con lui passerò il tempo fotografando e visitando il museo ferroviario e percorrendo il salares fino all’isola de los pescadores, avamposto collinoso situato nel suo centro.
Probabilmente è nata un’amicizia, per la particolarità delle circostanze, ma anche perché, la simpatia del personaggio ha contribuito in maniera determinante ad instaurare il rapporto.
L’ultima sera, dopo un’ottima cena, siamo seduti ad una panchina in compagnia di Stefania, backpacker di Riccione, in viaggio da 1 anno ed ormai al termine della sua esperienza.
Una macchina è ferma ad una ventina di metri. Stanno aspettando qualcuno, che arriva, sale, ma l’avviamento è piuttosto precario, quasi insufficiente anzi, decisamente sull’orlo di un collasso elettrico.
Siamo lì, ci guardiamo negli occhi un attimo e siamo lì a spingere. Il bello è che il veicolo è pieno zeppo di gente, almeno 6 persone più bambini e non uno scende per darci una mano. Fortunatamente l’avvio è piuttosto lesto. Colpo di clacson e via. Torniamo alla nostra panchina ma, neanche 5 minuti dopo, l’auto rispunta all’angolo della strada, si affianca, lo sportello si apre ed una mano con una bottiglia di birra ne spunta fuori. Ringraziamo: “salud” e ci riavviciniamo alla panca.
“no, no tiene da tomarla a ora, necesitamos del vuoto, es a render!!”
La strada che da Uyuni, sale verso nord ovest direzione Potosi è punteggiata da miniere abbandonate, altre ancora in funzione in un paesaggio incredibilmente multicromatico, costantemente oltre i 4000m.
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La strada, rigorosamente sterrata (ma niente a che vedere con la 701 per arrivare a Uyuni) regala comunque paesaggi fantastici, una straordinaria giornata di moto ed incontri, fino ad arrivare alla miniera boliviana per antonomasia, magnifica nella sua scenograficità, sogno, incubo, girone da inferno dantesco: il Cerro Rico che domina Potosi. A 5 minuti dalla città un posto di blocco. Penso ad un controllo militare, ma un ragazzo m’invita ad entrare. Nella casina, altri 2 dormono profondamente.
“10 bolivanos”
“!!...per cosa?”
“come per cosa, per l’utilizzo della carrettera!!”
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Quanti furono i morti?
“Che importa” rispondevano i sovrani europei, ben contenti di questa montagna di argento che portò 2 volte alla bancarotta il regno di Spagna, che s’indebitò e scialacquò a mani bucate, tanto che alla fine i veri beneficiari furono i paesi del nord Europa. Un processo definibile come “accumulazione originaria del capitale”, un’iniezione di liquidi inimmaginabile equivalente a 50 miliardi di dollari, valore aggiornato al 1970 (30000 tonnellate, ma c’è chi dice che furono quasi 45000!!), il tutto, fra i secoli XVI° e XIX°! Viste le dimensioni dell’economia europea dell’epoca, corrisponde ampiamente a diversi “piani Marshall”.
Il calcolo approssimativo arriva fino alla spaventosa cifra di 8 milioni!!! Un genocidio che vide vittime, indios Aymarà, quechua e neri importati dall’Africa con la tratta degli schiavi. La “mita” era il lavoro forzato e gratuito eseguito a turni nelle miniere in condizioni spaventose. Ogni anno decine di migliaia di indios e schiavi morirono di sfinimento o avvelenati dalle esalazioni di mercurio utilizzato nella lavorazione dell’argento. Eppure il sistema e il nome “mita”, erano stati copiati dalla mita degli Inca. Ma mentre i figli del sole erano tenuti a lavorare 2 o 3 anni per il loro padrone, una sorta di imposta reale, gli spagnoli organizzarono giganteschi esodi della popolazione proveniente dalla comunità quechua ed Aymarà delle valli e dell’altipiano. I contadini furono obbligati a diventare minatori. Con le terre ormai prive di braccia, il fragile ecosistema degli altipiani fu irrimediabilmente distrutto e tutta l’economia della regione si concentrò intorno a Potosì. Così sorsero Buenos Aires e Lima-El Callao, autentiche città portuali destinate a regolare il flusso d’argento e di merci tra America, Europa ed Africa.
E’ chiaro che i minatori lavoravano sotto terra fino a morirci, altro che “mita Inca”!! Ben presto si dovettero importare uomini dall’Africa per carenza di mano d’opera! L’argento delle miniere diede grandezza alla Spagna e fece sorgere i suoi favolosi palazzi, soprattutto a Siviglia dove si trovava la Casa di Contratacion che guidava il valzer dell’argento, degli schiavi e delle merci. L’economia europea in piena espansione grazie al “cash flow” procurato dall’America, potè generare allora un nuovo capitalismo. Probabilmente nelle facoltà di economia le cose vengono spiegate in modo diverso! All’epoca Potosì era la Bisanzio americana. E’ evidente, e lo dicono numerosi storici, che l’Eldorado era Potosì. Non valeva la pena di andarlo a cercare in Amazzonia! Lo sfruttamento andò avanti fino alla metà del XVIII sec, quando la montagna i cui giacimenti sembravano infiniti, cominciò ad accusare i colpi dello sfruttamento fino ad esaurirsi. Ne furono scoperti altri in Perù e Messico e Potosì decadde rapidamente, tanto da ridursi nella prima metà del XIX° sec a soli 10000 abitanti. Le miniere sono ancora in funzione. Dal 1952, anno in cui i minatori si ribellarono allo stato, una cooperativa gestisce il lavoro nella impressionante miniera, il Cerro Rico appunto, che domina la città, dichiarata patrimonio dell’umanità. Orari massacranti, una mortalità elevatissima, con i medesimi problemi poi che, sebbene il lavoro sia ora gestito autonomamente, i prezzi sono sempre e comunque controllati dalle grandi compagnie internazionali. Un sacco da 50 kg viene pagato pochi euro e per il fabbisogno sono necessari circa 800kg, raccolti in 3-4 settimane di lavoro massacrante, svolto con gli stessi sistemi, materiali ed attrezzature, di quando gli spagnoli controllavano il mercato dell’argento in Sud America, e stiamo parlando di 300 anni fa.
La visita guidata alle miniere, anche se alquanto faticosa, serve a rendersi conto delle estreme condizioni in cui operano i minatori, costretti ad un lavoro disumano per necessità.
I turni sono da 4 ore, al quale segue un’ora di riposo e così via fino a che se ne può, masticando coca ed uno strano prodotto chiamato lejia (calce) una specie di aggregante che ne accellera gli effetti e che permettono di resistere per tanto tempo a queste profondità. A tutt’oggi circa 5000 minatori, di cui 300 donne lavorano nelle viscere del Sumaj Orcko. L’argento si è ormai esaurito da tempo sotto i terribili colpi inferti all’economia ed alle popolazioni locali dagli spagnoli nei 300 anni (1545-1825) in cui controllarono il territorio. La ricerca si è ora spostata soprattutto verso lo stagno, il “metallo del diavolo”, ma anche su zinco, piombo e rame. Si va in pensione a 65 anni con una pensione di circa 500-600 bolivanos, ma il nemico più terribile è la silicosi, che già dopo 10-15 anni di lavoro in queste condizioni, mina inevitabilmente i fisici di questi disperati. Quando questa malattia ha intaccato il 50% delle capacità polmonari, si può chiedere una pensione anticipata per invalidità, ma i controlli dello stato, spesso sono volti a ritardare il più possibile questa eventualità, ovviamente per questioni economiche. Sol, la nostra guida che dalla rapidità con cui si muove in questi budelli scivolosi, bassi ed angusti, tradisce le sue passate esperienze, mi dice che il problema sanitario è un problema assai grave. Le chiedo, per poi sentirmi immediatamente il solito cretino perché, le cooperative non stipulino, con 5000 iscritti e più, un’assicurazione. Mi guarda, no, mi osserva ed aggiunge. “quanti kg in più dovrebbero raccogliere i minatori?”
Ripenso agli 800kg mensili!!
A volte è meglio rimanere in silenzio nel dubbio di essere presi per dei cretini, piuttosto che aprire la bocca e darne l’assoluta certezza ai vostri interlocutori!!
Lascio a malincuore Potosì, ma purtroppo gli impegni presi con la redazione per partecipare al Top Dream Bmw, non mi danno possibilità di scelta: come al solito è incredibilmente tardi! La strada per Oruro è quasi completamente asfaltata. Già, quasi! Un bel 110km, forse di più, di sano, corroborante sterrato. I lavori di pavimentazione fervono: centinaia di persone al lavoro. Sabbia smossa che, come al solito mettono in difficoltà il puledro gravido con il suo centinaio di kg di bagagli. Occorre riconoscere che i boliviani stano facendo un ottimo lavoro per cercare di migliorare le condizioni, non certo ottimali del loro sistema viario. Tuttavia gli operai hanno trasformato, in questi casi, le arterie principali in trappole di sabbia e buche di fango!! Un po’ per riposarmi, ed un po’ perché, mi sono veramente rotto i coglioni, prendo la scusa di una foto ad un caratteristico pullman parcheggiato. Naturalmente come mi fermo, il sole si eclissa, in maniera subdola e perfida dietro le nuvole, lasciandomi con la macchinetta in mano come un ebete.
“hei amigo”
Mi chiamano dal bus. Sono in 3 e si occupano del vettovagliamento dei lavoratori lungo la strada.
Zuppa calda con chicha, una bibita fatta con una specie di farina. Mi domandano dell’Italia e di cosa sto facendo lì. In 1 anno i lavori saranno terminati e l’asfalto permetterà di raggiungere Potosì dalla capitale senza sofferenze. Un altro passo di avvicinamento ad Uyuni, per trasformare questo meraviglioso angolo di mondo in qualcosa di accessibile ai più. Ma è tardi ed i 3 devono terminare il loro giro. Ci salutiamo. Arrivo al casello di Oruro e mi avvertono che i minatori sono in agitazione per dei contratti non rispettati dal governo.
“fai attenzione!”
Parto, e a Caracollo, dove dovevano esserci blocchi ed agitazioni, la vita scorre con i soliti, blandi ritmi boliviani.
Mah, proseguiamo, una seccatura in meno dopotutto.
Un altro paio di villaggi neanche riportati sulla cartina, quando in lontananza mi sembra di scorgere una colonna!!!
All’ingresso di Panduro, il traffico è completamente bloccato.
“fanno transitare solo a piedi. Tenta, ma attento hanno anche la dinamite” Mi dicono le involontarie vittime di questo sciopero.
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“non si passa”
“lo so, ma lì indietro lo hanno fatto! Que pasa?”
E cominciano a raccontarmi che il governo non ha rispettato i contratti e soprattutto gli impegni presi. Mi domandano di Caracollo e gli dico che era tutto tranquillo. Cominciano ad agitarsi. La manifestazione doveva essere a livello nazionale e sarebbe dovuta scattare alle 10.00. Faccio presente che sono le 10.15 e che sono passato di lì più di mezz’ora fa. Un’esplosione. Hanno fatto saltare un pò di dinamite a non più di 15m da dove sono stato fermato. Ripenso alla dimostrazione di Sol con casco e distanza di sicurezza, penso che tutto sommato, anche qui ho il casco e mi viene da ridere. Qualcuno è ubriaco, uno mi si avvicina e cerca un punto imprecisato tra il cupolino ed il cruscotto per sistemare quello che sembra un tric e trac artigianale.
Viene allontanato in malo modo dagli altri.
Praticamente tutti masticano coca e sono in attesa di una risposta del governo che dovrebbe arrivare nel pomeriggio.
Piazzo il cavalletto della moto e scendo.
“che fai?”
“niente mi fermo ed aspetto con voi!”
“ma no vai, sei un turista ed hai tutto il diritto di transitare. Benvenuto!!”
il curioso è che qui ci sarebbe un controllo pedaggio, ma è completamente deserto.
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“si, pero yo ne quiero 3” rispondo.
Scoppio di risa, mi volto e... non mi ero accorto, sono circondato da sguardi sorridenti.
La signora: “locos”, continua ed io a rispondere a decine di domande, sull’abbigliamneto, la moto, uno vorrebbe fare a cambio di casco. Ci salutiamo e per la prima volta da quando sono in viaggio, quasi un mese e mezzo, sono io a dire: “suerte y que le vaya bien!” Speriamo!!
Il viaggio continua. Perù. Qui, per molteplici motivi, di ordine sociale, politico di sicurezza ed anche personali, decido definitivamente di cambiare l’itinerario: non più nord del continente (il Venezuela nell’ultimo mese è diventato un’incognita troppo grande!) e Amazzonia (in piena stagione delle piogge), ma ritorno verso sud, inserendo tratti nuovi: Bolivia, la parte nord con la fantastica La Paz, il nord del Cile, l’Uruguay e approfondire meglio il sud del Brasile.
Quindi ancora sud del Peru, Arequipa e lago Titicaca.
Lascio Puno, stranamente c’e’ un po’ di sole. I primi villaggi sono una vera e propria rassegna della produzione, raccolta e di tutto quello che si può fare con la totora, questa canna che cresce nel lago sacro. Ne approfitto per fare qualche scatto, sempre chiedendo il permesso, che spesso viene concesso, salvo non fotografare persone.
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“non pago per scattare foto!”
“per una gazosa”
Le rispondo che mi dovranno invitare a mangiare.
L’altra, che mi mostra continuamente gli ultimi 3 denti che le sono rimasti, abbozzando dei lugubri, simpatici sorrisi, apre una cesta e mi mostra delle polpettine di carne.
Ho fatto colazione meno di un’ora e mezzo fa, rifiuto cortesemente.
La prima insiste: “Guarda che ti assaltiamo!” e comincia a contare la sua improvvisata banda di rapinatori. Effettivamente sono 6 (compreso il neonato che ha in braccio).
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Naturalmente al bivio di Pumaca, con la consueta, completa, assoluta, cronica, sistematica mancanza di segnalazione, vado stupidamente diritto, pensando che un punto di confine, a soli 25 km per giunta, debba essere per forza segnalato.
10 km e mi accorgo che la direzione è sbagliata.
Mi fermo, domando e la risposta conferma i miei dubbi.
Ritorno al bivio e chiedo.
I 2 sono fermi ad un angolo, discutono. Mi fermo. Hanno dei bicchieri in mano che dal colore, una volta escluso che sia acqua, dovrebbe essere pisco, la grappa locale.
Sono palesemente, assurdamente ubriachi alle 13.00.
Il più giovane dei 2, circa 18 anni, mi chiede con chi voglio parlare. La strada è quella giusta, lo so, gli rispondo che non mi importa. Si avvicina e mi chiede 50 centavos per l’informazione.(!!!)
Insiste. La posizione è in stallo assoluto, decido di partire, ma lui è ostinatamente aggrappato alla sua richiesta oltre che al manubrio della GS, il bicchiere pericolosamente in bilico nell’altra mano.
Faccio un paio di metri e mi rendo conto che così sarò costretto a dichiararlo come merce al seguito al confine di Yunguno. Sto per scendere dalla moto, quando interviene una terza persona, che senza proferire parola lo allontana.
Vorrei fermarmi e parlare, dire qualcosa, ma mi rendo che avrei la stessa utilità di quando mi parlo o canto nel casco percorrendo la Panamericana.
“Perdono” me ne esco semplicemente chiedendo scusa, e perché poi, ma non mi viene niente altro in mente. Il soccorritore mi fa un cenno come per dirmi. “Vai, non ti preoccupare, ci penso io.”
Alla fine un assalto l’ho subito veramente!!
Per uscire dal paese ho attraversato il lago Titicaca dal confine di Yunguno, che merita un discorso a parte.
La polizia è lì, appostata, in attesa di estorcere denaro a turisti e pellegrini in visita al santuario di Copacabana, sulle sponde del lago Titicaca.
Non tirate fuori neanche gli spiccioli, sarebbero dichiarati immediatamente come non autentici e sequestrati. Io ho dichiarato che avevo pochissimi contanti, e che usavo la carta di credito. Per il resto la solita, assoluta calma, per altro sempre necessaria quando si viaggia a queste latitudini.
Tutto ciò dal lato peruiano. In Bolivia, il militare, una volta registrati i dati del veicolo vi chiederà candidamente. “10 bolivianos” Se parlate castigliano, chiedete il motivo. Il sottoscritto che era già entrato nel paese senza pagare nulla, l’ha fatto presente, e lui sempre con l’innocenza dei giusti, mi ha risposto che era per un contributo. Già, per le sue tasche!!
A quel punto ci si può alzare e salutare.Se, in caso contrario non riusciate a cavarvela, chiedete una ricevuta sulla quale apporre anche il nome del poliziotto. Dovrebbe essere sufficiente ad affrancarvi la gabella. Quindi, nuovamente, fantasticamente Bolivia.
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La situazione purtroppo degenererà drammaticamente qualche settimana dopo. Apprenderò la notizia da un notiziario in Cile: guerriglia urbana con decine di morti (almeno 20!) e numerosi feriti fra i manifestanti. Nell’itinerario inserisco un breve tratto già percorso all’andata, che non mi aveva dato grandi soddisfazioni fotografiche, spettacolare per gli scenari e con la possibilità di pernottare nel punto più alto di tutto il viaggio.
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Qui, come detto, tornerò per ben 2 volte sempre per il solito tema delle foto, inserendolo come punto di sosta sia all’andata che al ritorno, anche se a dirla tutta, entrambi i tentativi si sono risolti in un terribile fiasco fotografico, tale da non avere che poche testimonianze degne di tanta spettacolarità. Il villaggio di Parinacota, che in Aymara vuol dire “posto dei fenicotteri” è sicuramente il posto più elevato dove ho trascorso la notte. Da qui è possibile vedere, se si è fortunati, il vulcano Parinacota, che indossa fantasticamente un cappello di ghiacci ben oltre i 6000m. Degno corollario, mandrie di lama e stormi di fenicotteri rosa! Un posto da sogno. Il parco nazionale più bello del Sud America, recitano in coro guide e depliant pubblicitari, anche se personalmente continuo a preferire il Parque National Torres del Paine, sempre in Cile, ma molto più a sud, in Patagonia. Credetemi, ce l’ho messa tutta. Oltre a ritornarci per 2 volte, ho praticamente conosciuto e parlato con tutti gli abitanti del villaggio (bello sforzo, direte voi, sono 5 famiglie!!), ho dormito in baracche di fango, con la temperatura che di notte anche d’estate, scende di parecchi gradi sotto lo 0. Ma non c’è stato niente da fare. Solo al secondo tentativo, mentre mi godevo gratuitamente insieme a tutti gli abitanti, un incredibile tramonto, il Parinacota, come tutte le stars volubili e capricciose, si è mostrato, assumendo una serie di colori impressionanti, dall’arancione all’ocra. Una mezz’oretta di spettacolo, ma di quelli che sicuramente si fatica molto a dimenticare, le dita rattrappite dal freddo che ormai non si sente più, avvinghiate alla reflex ormai inutile nelle mani, pensando solo a quante varietà di rosso possano esistere e perché per scoprirle si debba andare così lontano da casa. Cazzo, aggiungerei!!
Se mai vi dovesse capitare di fermarvi a Parinacota, quasi tutti hanno alocamjento, alcuni fanno da mangiare. La prima volta ho degustato la cucina di Rosa, la seconda sono arrivato dopo suggerimenti alla casa di Dona Francisca. La stanza è al buio, il tempo di abituarsi all’oscurità e la vedo seduta lì, a capotavola che mangia. La sua carnagione india la mimetizza. Chiedo comida. Come al solito non tocco cibo dalla mattina a colazione.
“che vuoi?”
“che hai (facciamo prima)?”
“churrasco di alpaca e riso”
“qualche patata?”
“torna fra un’ora”
L’alpaca era crudo, le patate anche ed il riso senza l’aiuto della pentola a pressione sarebbe ancora peggio di quanto non sia, a quasi 4500m e con una stufetta a legna per giunta, non è che si possano pretendere miracoli. Io mangio e lei inforna il pane per la mattina dopo. La famiglia vive ad Arica, lei ogni tanto va a trovarli ma preferisce vivere quassù, anche se a volte d’inverno è veramente dura. Alla fine mate di coca, 2 pezzi di pane appena sfornato, 1100 pesos (€1e mezzo) e via a letto.
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“1000 pesos”
“no, 500 pesos”
Bueno, pago: “ci vediamo dopo”
Vado a controllare i 4 punti di osservazione. Il posto è davvero suggestivo. Come per Nazca la domanda è sempre la stessa: “perché?”
Ho già deciso, ritorno rapidamente all’ingresso, Alejandro è ancora lì.
“posso bivaccare?”
“claro que si!” mi lascia la sua acqua potabile, il bagno della guardiola aperto e mi dice che il vento (ora davvero sostenuto), una volta tramontato il sole diminuisce quasi del tutto.
Tenterò domani (e sono 3 volte!!). Almeno faccio la spesa per pochi euro e una modica cifra chilometrica, circa un centinaio. Bivacco fantastico, nonostante il vento, con tramonto incluso nel pacchetto dei servizi. Il nord del Cile è famoso soprattutto per il deserto di Atacama ed i suoi salar al confine con Bolivia ed Argentina. Ed infatti tornerò anche a San Pedro De Atacama, splendida, tranquilla oasi ai margini del deserto, dove nonostante ormai si vive di turismo, la vita scorre tranquilla, con ritmi dettati dalla natura, dove le persone sembrano tutte simpatiche, le ragazze sono tutte carine, insomma uno di quei posti dove si torna sempre con piacere e dove, si finisce per rimanere sempre più di quanto si prevedesse all’inizio.
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I colori stordiscono la percezione visiva: i gialli, trasformandosi in arancione attraverso una metamorfosi cromatica, si mischiano ai verdi!!
Ed è ancora pampa, qualche parco nazionale, amici, incontri, alcune visite.
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Ci sono stati, guarda un po’, grossi problemi economici e di fondi col governo argentino, ma la situazione si è finalmente sbloccata ed Oreste Bussolini, il direttore mi dice: “era ora non ne potevo più di poltrire sfogliando il Corriere della Sera, leggendo delle cazzate di Berlusconi!!!”.
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Arrivo a Colonia.
Che giornata! Proprio come dovrebbero essere tutti i giorni di un viaggio. 3 ore di traghetto accompagnato da un sole radioso con arrivo in una delle città più straordinarie di tutto il Sud America. Gente cordiale ed un tempo meravigliosamente solare mi permettono di fare tutto e bene in una giornata. Foto, visita al Barrio antico, dichiarato patrimonio dell’umanità, visita alle spiagge del Mar de la Plata, qualche educativa chiacchierata con gli abitanti e persino una veduta panoramica dal faro della città.
Dulcis in fundo, un tramonto traumaticamente spettacolare dietro i grattacieli della capitale argentina. Si, avete capito bene: in giornate come queste Buenos Aires, che dista più di 40km, lascia scolpito nel cielo arancione le sue sagome di cemento!!
Anche l’Uruguay, purtroppo, risente della crisi, aggravatasi negli ultimi mesi.
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Il “corallito” argentino ha creato un vortice negativo che sta risucchiando anche questa piccola nazione schiacciata tra Brasile ed Argentina e che vivendo prevalentemente di turismo, comincia ad andare in affanno, dato che, quasi il 50% del movimento prima del dicembre 2001 era creato appunto dagli argentini.
Montevideo, una capitale desolatamente deserta, mi accoglie in un classico sabato post atomico da vacanze.
Naturalmente i documenti verranno controllati, e con molta più attenzione, qualche giorno dopo, cosa che comporterà un’espulsione dal paese, evitando per un soffio provvedimenti molto più gravi.
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In verità anche il paesaggio non è molto entusiasmante, ma dopo altipiani boliviani, Perù e nord del Cile, sfido chiunque a contraddirmi!
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Con un mega trasferimento giornaliero di 1200km, mi concederò gli ultimi giorni a Rio De Janeiro.
E’ fatta! E’ davvero finita: sono stanco, felice, soddisfatto di me. Posso tornare a casa.