LA VIA DORATA DI SAMARCANDA
Il navigatore fisso sulla direzione est, giorni e giorni seguendo un obiettivo che è anche un sogno. Samarcanda! Un viaggio, vero, di quelli che, irrimediabilmente, lasciano il segno in chi ha la fortuna di parteciparvi.
Baku, Azerbajgian, sono, siamo sulle rive del Mar Caspio, che domani traghetteremo a bordo di una petroliera, di un traghetto o di qualsiasi cosa galleggiante che ci consenta di attraversarlo. Le notizie in merito sono alquanto contrastanti. La mia idea di raggiungere Samarcanda è stata letteralmente fatta propria da Dino, amico non che amministratore-responsabile di un’associazione che organizza viaggi in moto. L’idea era nata in un pomeriggio dello scorso settembre a casa sua, tra un bicchiere di vino e qualche chiacchiera tra amici. Il progetto da lui sviluppato ci ha portato fino in Azerbaygian, attraversando Turchia, Georgia per poi collegarsi ad una delle vie della seta e raggiungere Samarcanda.
La prima parte a dire la verità è stata solo un
lunghissimo, estenuante trasferimento cercando di accorciare il più possibile
la distanza dall’Italia al punto in cui ci troviamo in questo momento
nonostante la bellezza di alcune regioni attraversate.
La giornata di riposo viene spesa bighellonando per il
centro storico della capitale oppure con un’escursione di un paio di centinaia
di km per ammirare alcune delle attrazioni principali del paese. Il
sottoscritto opta per la prima soluzione che si rivelerà anche la peggiore,
vista la quantità e la qualità delle cose viste dagli altri ragazzi.
Cominciamo a fare conoscenza e vedere direttamente i
catastrofici, speso irreparabili disastri ecologici che il governo sovietico è
riuscito a compiere nel corso della sua storia.
Conoscere per evitare, ma per i danni, per le malattie, i
cambiamenti climatici?
Ci sono 7 traghetti che fanno la spola tra le due sponde
del Mar Caspio, ma con orari particolarmente flessibili e quasi esclusivamente
adibiti al trasporto di merci.
Si raggiunge un primo accordo, ad un prezzo spropositato,
con un Caronte caucasico dagli occhi celesti. Espletamento delle formalità
doganali e primo imbarco dei mezzi. La stiva è completamente piena di vagoni
ferroviari che trasportano cereali.
Sistemiamo le moto ed inizia l’ingresso degli ultimi
quando improvvisamente accade qualcosa: Caronte, camicia aperta a mostrare una
pancia da galleggiamento di salvataggio, fa capire con modi alquanto scortesi
che i ritardatari devono abbandonare la nave.
Le urla aumentano e compare anche gran parte
dell’equipaggio.
Dovranno intervenire le guardie doganali per ristabilire
l’ordine e permettere a tutti di salire a bordo.
L’imbarcazione come le altre, fa parte di uno stock
iugoslavo acquistato dal governo. Le condizioni sono a dir poco disastrose. Per
un supplemento di altri 10$, riusciamo a rimediare anche 6 cabine, 3$ per la
cena.
Saranno circa 20 ore di navigazione. Il viaggio è iniziato!!
Lo confermerà l’entrata in Turkmenistan: diverse ore per
l’ingresso.
Siamo in pieno deserto, nonostante il mare sia ancora
visibile e come ci allontaniamo la colonnina di mercurio schizza a 48°!!!
Mi ripeterò, ma questi luoghi hanno un’influenza fortissima,
sono una specie di catalizzatore che trasporta i propri pensieri su livelli più
ascetici e riflessivi.
Qui tutto diventa secondario. Il tempo si dilata insieme
agli spazi.
Ho letto da qualche parte, probabilmente Chatwin, che a
sua volta aveva attinto da qualche altra fonte, che chi percorre il deserto da
solo, riesce a trovare una pace interiore che è la cosa più simile alla fede in
Dio.
Non sono un credente, ma non posso che condividere tali
affermazioni e, per quanto riguarda la solitudine il fermarmi continuamente a
scattare foto, mi mette immediatamente nella condizione più felice, lontano dal
gruppo.
Il Tukmenistan, è una repubblica in gran parte desertica,
ma che offre degli scenari splendidi.
L’attraversamento del confine uzbeko è più semplice dei
precedenti, ma a complicare le cose interviene un malore di uno dei
partecipanti dovuto ad un colpo di calore con conseguente disidratazione.
Dovrò accompagnarlo in ospedale insieme alla guida locale
del gruppo scortando con la moto la mini ambulanza.
Prima visita in una clinica, poi flebo nel locale
ospedale a Nukus. La struttura non è sicuramente all’altezza delle nostre,
molte infermiere, pochi, pochissimi malati, non hanno medicine che devono
essere acquistate da Awar, la guida che ci accompagnerà nei prossimi giorni, ma
il personale è gentile e rappresentiamo sicuramente un’attrazione. A turno
vengono a farci visita medici, infermiere e personale. Conosco anche la
direttrice sanitaria, Tabassum, che in uzbeko vuol dire “colei che ride”.
Con Awar che traduce, discutiamo del più e del meno
mentre la flebo cerca di rimettere in piedi un Walter alquanto spento e
sottotono.
Quando scoprono che sono qui per fotografare e che
l’imprevisto mi ha impedito di fermarmi negli splendidi cimiteri che ci sonno all’ingresso
della città, “colei che ride”, che lo è anche di fatto, mobilita un’ambulanza
con tanto di autista per accompagnarmi sul posto.
Awar sembra perplesso e mi raccomanda di non dilungarmi
troppo, bisogna raggiungere il resto del gruppo.
Che luci!! Torniamo, Walter ha terminato, anche se non
sembra in gran forma, salutiamo tutti con calorose strette di mano e
raggiungiamo l’albergo di fine tappa.
I deserti non sono finiti, ma questo Kyzylkum è fra i più
monotoni incontrati nel corso del viaggio.
Situata a cavallo delle rotte commerciali e migratorie,
l’Asia centrale ha mescolato e fuso per millenni varie tradizioni artistiche
provenienti dagli imperi turco e persiano, trasformandole poi in un’estetica
indigena. Durante le loro campagne del terrore, sia Gengis Khan che Tamerlano,
catturarono artigiani di ogni provenienza, da Pechino a Baghdad, che
realizzarono una splendida fusione di stili nei tessuti, nei dipinti,
nell’architettura e nell’arte di lavorare i metalli.
Le testimonianze più suggestive della tradizione
artistica dell’Asia Centrale si devono alla sua architettura e, soprattutto in
Uzbekistan, a Khiva, Bukhara e Samarcanda, si trovano alcuni dei più belli,
audaci e splendidi edifici religiosi islamici del mondo.
Sicuramente Khiva e Bukhara vantano la maggiore
omogeneità in campo architettonico, che esalta l’importanza della “sharistan”,
la città interna. Una cinta muraria esterna circondava la maggior parte delle
città centro asiatiche, proteggendole dalle tempeste e dall’attacco dei briganti.
L’islam comunque domina l’architettura dell’intera
regione. In città i monumenti furono spesso costruiti l’uno di fronte all’altro
e disposti simmetricamente a coppie. Ed è verso queste che ci dirigiamo.
Sono l’ultimo tanto per cambiare, faccio benzina prima di
prendere la 380 dove per almeno 280km non dovrei trovare rifornimenti. Ho
riempito anche un paio di bottiglie, che dovrebbe consentirmi di attraversare
questa arida steppa senza problemi.
Al distributore dopo 2 controlli di polizia, la benzina
non c’è, ma mi dicono che a 2 km avrò più fortuna. Parto ed incrocio il gruppo
fermo per la sosta pranzo. Devo dire che ci sono più ristoranti che benzinai su
questa strada.
Awar mi vede e sembra felice, facendomi un gesto per
complimentarsi per il mio arrivo, era convinto che mi fossi perso o fossi
rimasto senza benzina.
Ne approfitto per rabboccare 4 o 5 litri di benzina.
Naturalmente anche il secondo distributore è senza benzina. Stavolta sarei
rimasto a secco per strada!!
Dopo 50km finalmente trovo un benzinaio funzionante ed
operativo. Solo benzina 76 ottani ma la Transalp nonostante batta in testa
piuttosto rumorosamente la sta sopportando da diversi giorni. Una cisterna sta
caricando qualche migliaio di litri e vengo circondato dai soliti curiosi. Arriva
un pulmino che tranquillamente passa davanti a me ed alle 3 macchine in attesa.
I curiosi mi spiegano a gesti che deve solo rifornirsi di 2 litri.
Va bene. Qui devi comunicare in anticipo i litri.
Cominciamo con 5 litri, poi 3, seguiti da altri 3.
Bene, arrivo a Bukhara, passiamo alla cassa.
L’omaccione all’interno dello spioncino mi mostra un
calcolatore con scritto 9.000.
“!!!” gli indico a gesti di rifarmi il conto.
Digita 15, poi 600.
Provo a dirgli che sono stati erogati 10 litri.
Uno dei curiosi, spione, gli dice che sono 11.
Ripete l’operazione, ma non ci siamo ancora, gli strappo
la calcolatrice dalle mani e digito 11 per 510, che sarebbe il prezzo della 76
ottani. 5610 Sum, che poi sarebbe la loro moneta. Mhh, meglio, gli do 5000, mi
fa un cenno con la mano, gliela stringo e me ne vado.
Ho letto che i vecchi uzbeki, secondo una vecchia
tradizione, recitano che Samarcanda è la bellezza della terra, ma Bukhara è
soprattutto la bellezza dello spirito.
Samarcanda evoca viaggi avventurosi al di là dell’ignoto,
una cascata di lettere che apre la porta su immagini fantastiche, Bukhara no, è
spesso solo un punto geografico lungo la via della seta. Eppure tutto ciò è
strano.
Bukhara, che per i credenti è l’occhio di Dio sulla
terra, il pilastro dell’Islam e per i laici è comunque “Bukhoro-i-Sharif”, la
nobile spesso viene dimenticata dalle cronache. La parte più antica è
bellissima, piena di vita, uno di quei posti dove rilassarsi e godersi le
giornate, bighellonando per le sue viuzze ed i suoi mercati che si aprono
improvvisi. Tutto ciò diventa in brevissimo tempo la cosa più naturale da fare.
Mi era già capitato di trovare posti così in sud America: tutto sembra
perfetto, le persone sono sempre gentili, le ragazze sono tutte carine.
Difficile arrivarci, forse, facilissimo fermarsi anche più del dovuto, uno dei
quei posti dove ci si torna volentieri.
Letteralmente conquistato, ho voluto attendere di
visitare anche Samarcanda, prima di buttare giù le mie considerazioni. Già
Samarcanda.
“Non viaggiamo per il commercio, da venti più caldi sono
infiammati i nostri cuori più ardenti. Per la bramosia di conoscere ciò che non
dovrebbe essere conosciuto, percorriamo la strada dorata che conduce a
Samarcanda”. Come recita James Elroy nei versi di Hassan.
Nessun nome richiama di più alla mente la via della Seta
di quello di Samarcanda.
Ad alla fine ci siamo, il momento è arrivato, dopo
8.036km, la città di Tamerlano, Timur “lo zoppo” è li!
Ma l’atmosfera è quella di una città, che va
espandendosi, bella, in alcuni punti bellissima, ma con ritmi da metropoli, un
po’ asettica, rispetto all’immaginario.
Dopo 2 giorni di visite, vorrei ritornare a Bukhara, la
città santa e dannata allo stesso momento.
Perché Samarcanda evoca leggende e sogni, assurge a
rifugio dell’anima e della fantasia, in mirabolante compagnia di nomi
altrettanto altisonanti come Zanzibar e Timbuctu mentre Bukhara è
immeritatamente ritenuta solo una città di mercanti senza scrupoli, di
tessitori di tappeti?
Io preferisco e di gran lunga quest’ultima. Ed anche
Khiva, nelle mie personalissime preferenze supera quella che è la meta, il
sogno, il desiderio di questo viaggio!!
Ma siamo agli sgoccioli, manca solo il trasferimento di
300km a Tashkent, cuore organizzativo ed amministrativo di questa area
geografica che risponde al nome di Asia centrale per consegnare i mezzi ed
imbarcarsi sul volo che ricondurrà i partecipanti in Italia.
Ed ora? Tocca “solo” rientrare via terra, ma questa è
un’altra storia.
La Via della Seta
Nessuno sa per certo quando
questo tessuto miracolosamente raffinato, leggero, soffice, robusto, non che
splendente e sensuale, raggiunse per la prima volta l’Occidente dall’originaria
Cina. Molte sono le leggende, ma pare certo che intorno al 100 a.C. la Partia e
la Cina si inviarono delle ambascerie inaugurando il primo commercio ufficiale
bilaterale lungo una via carovaniera tracciata tra i 2 regni. Nasceva così di
fatto anche se non ancora di nome, la Via della Seta, che avrebbe prosperato
per i successivi 800 anni. Dal punto di vista geografico, non fu mai un unico itinerario,
quanto piuttosto una fragile rete di percorsi carovanieri intercontinentali in
continuo spostamento che attraversarono alcune delle montagne più impervie e
vari deserti tra i più desolati del mondo allora conosciuto. I mercanti diretti
ad ovest come ad est, non formavano carichi particolarmente grandi, poiché non
esisteva un vero e proprio traffico diretto e le carovane si spostavano su brevi
e medie distanze provvedendo al trasporto di beni secondo i propri bisogni ed
inclinazioni. Nel bel mezzo della Via della Seta si trovava l’Asia centrale, un grande
territorio di smistamento che forniva animali, per consentire i commerci in
entrambe le direzioni. Le città di Bukhara e Samarcanda rappresentavano comodi
punti di sosta a metà del percorso, dove le carovane provenienti da Aleppo e
Baghdad, incontravano i mercanti di Kashgar e Yarkand. Lungo l’itinerario
sorsero i rabat (caravanserragli), che offrivano alloggio, stalle e magazzini.
La Via della Seta diede vita ad un’attività commerciale senza precedenti, ma il
fatto che la rese di importanza cruciale per la storia dell’umanità, fu che per
la prima volta attraverso questi itinerari, ci fu un interscambio di idee,
tecnologie e convinzioni religiose, grazie ai contatti tra realtà culturali
profondamente diverse.
COLPO D'OCCHIO
La popolazione totale dell’Asia centrale è di circa 60
milioni di persone ed includendo l’Afghanistan, raggiungiamo circa gli 85
milioni. Poche zone del pianeta con una simile estensione possono vantare una
complessità demografica e mutamenti così vistosi. Ciascuna repubblica ha
ereditato il proprio panorama etnico dal sistema sovietico. Ma nonostante
questo complesso interagire di diverse etnie al di fuori dei loro confini
nazionali, la loro convivenza è sorprendentemente tranquilla.
ARTE
E CULTURA
Situata a cavallo delle rotte commerciali e
migratorie, l’Asia centrale ha mescolato e fuso per millenni varie tradizioni
artistiche provenienti dagli imperi turco e persiano, trasformandole poi in
un’estetica indigena. Durante le loro campagne del terrore, sia Gengis Khan che
Tamerlano, catturarono artigiani di ogni provenienza, da Pechino a Baghdad, che
realizzarono una splendida fusione di stili nei tessuti, nei dipinti,
nell’architettura e nell’arte di lavorare i metalli. Le testimonianze più suggestive della tradizione
artistica dell’Asia Centrale si devono alla sua architettura e, soprattutto in
Uzbekistan, a Khiva, Bukhara e Samarcanda, si trovano alcuni dei più belli,
audaci e splendidi edifici religiosi islamici del mondo. Sicuramente Khiva e Bukhara vantano la maggiore
omogeneità in campo architettonico, che esalta l’importanza della “sharistan”,
la città interna. Una cinta muraria esterna circondava la maggior parte delle
città centro asiatiche, proteggendole dalle tempeste e dall’attacco dei
briganti. L’islam comunque domina l’architettura dell’intera
regione. In città i monumenti furono spesso costruiti l’uno di fronte all’altro
e disposti simmetricamente a coppie.
Il minareto Kalon a Bukhara, è un’incredibile struttura alta 47 metri, con fondamenta profonde 10, che in 850 anni non ha mai avuto bisogno di restauri, se non di tipo estetico. Khalon, in tagiko significa “grande” ed era probabilmente l’edificio più alto dell’Asia centrale. Anche Gengis Khan ne rimase talmente esterrefatto ed impressionato, che ordinò di risparmiarlo.
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